CHE FARE?
Quando un’impresa o un ente pubblico si siano accorti della palese inutilità dello strumento finanziario negoziato con la banca ovvero si siano resi conto dei perniciosi effetti che il derivato sta producendo sul proprio equilibrio economico-finanziario, è il caso di iniziare a valutare la possibilità/opportunità di agire contro la stessa banca intermediaria al fine di svincolarsi dall’operazione.
Pur nel generale silenzio dei media (tranne qualche sporadico accenno operato da alcune testate giornalistiche specializzate), in Italia vi è un discreto contenzioso che vede contrapposte banche e clienti che hanno stipulato le operazioni in derivati e che hanno agito – spesso con successo – per cercare di limitare i danni ovvero sottrarsi ad operazioni finanziarie poco o per nulla vantaggiose.
Non mancano i casi di provvedimenti cautelari adottati ai sensi dell’art. 700 c.p.c. con cui alcuni Tribunali italiani, in situazioni di criticità finanziarie dell’impresa (o dell’ente pubblico), hanno in qualche caso ordinato alla banca di sospendere in via d’urgenza l’addebito sul conto corrente del cliente dei differenziali negativi discendenti dalle operazioni su strumenti derivati.
Vi è da dire che moltissimi “contratti-quadro” che hanno funto da cornice negoziale alle operazioni in derivati hanno imposto la clausola compromissoria ai contraenti, con il conseguente divieto di adire la giurisdizione: questa è la ragione del fatto che moltissimi contenziosi sono stati aperti dalle imprese, anziché dinanzi ai Tribunali civili italiani, in sede di arbitrato privato, al cui interno spesso le banche hanno preferito risarcire bonariamente i propri clienti chiedendo però in cambio l’assoluto “silenzio-stampa” sulla conclusione dell’operazione.
CONTROLLO DEI DOCUMENTI FIRMATI
Facciamo dunque il punto della situazione: la prima cosa che bisogna fare è rendersi conto di quali documenti sono stati fatti sottoscrivere dalla banca al legale rappresentante dell’impresa o dell’ente pubblico al momento di negoziare lo strumento derivato.
A questo proposito, è importante ricordare che l’art. 31 del vecchio regolamento CONSOB attuativo del Testo Unico sulla Finanza, approvato con delibera n. 11522 del 1998, rimasto in vigore fino al 2 novembre 2007, prevedeva l’esonero del soggetto intermediario (cioè la banca) da tutta una serie di obblighi informativi e doveri di altro tipo generalmente su di esso incombenti, ogniqualvolta lo stesso intermediario si fosse rapportato con dei clienti rientranti nel genus degli “operatori qualificati”.
Il secondo comma della medesima norma prevedeva che la definizione di “operatore qualificato” potesse essere desunta anche da una sorta di “autocertificazione” rilasciata dal legale rappresentante dell’impresa attestante la propria specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in materia di strumenti finanziari.
Nella pratica, è accaduto che moltissime imprese ed enti pubblici hanno inconsapevolmente sottoscritto tale tipo di dichiarazione anche in ipotesi nelle quali tale particolare competenza o esperienza non fosse effettivamente sussistente: la conseguenza è che, nei successivi giudizi intrapresi contro gli istituti bancari, i clienti si sono visti precludere diverse ragioni di nullità ovvero annullabilità ovvero risolubilità del contratto proprio perché, in quanto “operatori qualificati”, essi non avevano avuto diritto a beneficiare del particolare trattamento protettivo previsto dagli artt. 27-30 dello stesso regolamento CONSOB n. 11522 a tutela dei soggetti meno esperti.
La Suprema Corte di Cassazione, nel suo (finora) unico intervento attinente alla vexata quaestio della “autocertificazione” rilasciata ai sensi dell’art. 31 del regolamento CONSOB n. 11522, ha fissato il principio della presunzione relativa di veridicità della dichiarazione rilasciata dal legale rappresentante dell’impresa sulla propria competenza ed esperienza in materia di strumenti finanziari: in sostanza, tocca a chi agisce in giudizio contro le banche allegare tutti gli elementi atti a superare tale presunzione di veridicità e quindi provare la non corrispondenza tra quanto risultante da tale “autocertificazione” e la realtà dei fatti: tutto ciò comporta un discreto aggravio dell’onere della prova a carico del cliente, al quale viene affidato l’arduo compito di smontare il contenuto di una dichiarazione dal carattere ambiguo e beffardo, spesso rilasciata con leggerezza.
Per tutti i contratti sui derivati stipulati a partire dal 2 novembre 2007, viceversa, il quadro normativo di riferimento è mutato per via dell’ingresso in vigore della normativa nazionale attuativa della direttiva europea MIFID (1), che ha imposto una classificazione delle tipologie di clienti sulla base di parametri oggettivi.
A partire da tale momento, può correttamente intendersi quale “operatore qualificato” soltanto quell’impresa di medio-grandi dimensioni che soddisfi almeno due dei seguenti requisiti:
a) totale bilancio non inferiore a venti milioni di euro;
b) fatturato netto non inferiore a quaranta milioni di euro;
c) patrimonio netto non inferiore a due milioni di euro (criteri, tra l’altro, già in precedenza empiricamente individuati dal Tribunale Milano, nella sentenza del 3 aprile 2004, pubbl. in Giur. comm. 2004, II, 530).
INQUADRARE LA REALE FINALITA’ DEL DERIVATO
La seconda cosa importante da fare per chi ha sottoscritto contratti sui derivati è quella di smontare e decriptare il meccanismo matematico sotteso all’operazione al fine di smascherare la vera “causa” del contratto.
Spesso, infatti, un derivato presentato dalla banca come prodotto “di copertura” per un determinato rischio del cliente è in realtà dotato di una finalità unicamente e meramente speculativa: spetta al cliente, con l’ausilio di consulenti (contabili e legali) a suo supporto, mettere in atto un’operazione di trasparenza sulle reali caratteristiche e finalità dello strumento derivato, aldilà delle presentazioni formali offerte dalla banca, in modo tale da pensare di adottare le giuste contromisure tendenti a sganciarsi (ove ritenuto conveniente e possibile) dall’operazione.
Fortunatamente, le generali norme poste dal codice civile italiano in materia contrattuale attribuiscono una netta centralità alla causa del contratto, quale funzione economico-sociale sottesa ad ogni fattispecie negoziale: sia la assenza che la illiceità della causa possono determinare la nullità dello stesso contratto.
Nota 1: Markets in Financial Instruments Directive è il nome con cui è conosciuta la direttiva 2004/39/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 21 aprile 2004. A tale direttiva ne è seguita un’altra, la 2006/73/CE, attuativa della MiFID. Entrambe sono state recepite nell’ordinamento italiano con il decreto legislativo 17.9.2007, n. 164 e successivo regolamento CONSOB di cui alla delibera n. 16190 del 20.10.2007.