LA CARENZA DI UNA CAUSA CONCRETA RENDE NULLO IL CONTRATTO DI SWAP
Commento a cura dell’avv. Giuseppe Angiuli
Avevamo già segnalato l’ordinanza cautelare dell’ottobre 2011 con cui il Tribunale monocratico di Orvieto, in applicazione dell’art. 700 c.p.c., aveva ordinato in corso di causa ad un istituto bancario di sospendere in via d’urgenza l’addebito di differenziali negativi connessi ad operazioni del tipo interest rate swap stipulate dal Comune della stessa cittadina umbra (qui il link al provvedimento). [Continua a leggere →]
Più recentemente, sempre il Tribunale di Orvieto (con provvedimento depositato il 12 aprile 2012, Presidente e relatrice la dott.ssa Maria Pia Di Stefano, pubblicato su www.ilcaso.it), nell’ambito della stessa vicenda giudiziaria ma questa volta adìto in sede collegiale per il reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c. presentato dalla banca, ha confermato l’ordinanza impugnata, non mancando l’occasione per analizzare ancora più nel profondo la situazione in cui è finito per trovarsi l’ente territoriale a causa della stipula di ben sette swap e fissando alcuni importanti princìpi di indubbio rilievo giurisprudenziale.
Il percorso logico-argomentativo seguito dal Tribunale umbro muove da una preliminare definizione concettuale delle operazioni interest rate swap, descritte come contratti che prevedono “lo scambio a termine di flussi di cassa calcolati con modalità prestabilite, secondo un sistema che permette di diminuire il rischio connesso alla fluttuazione dei tassi di interesse ed in cui i reciproci pagamenti previsti sono ancorati a tassi di interesse differenti e predefiniti, applicati ad un capitale nozionale di riferimento”.
Il punto centrale della riflessione offerta dai giudici orvietani attiene all’analisi dello schema genetico che in un negozio di swap deve necessariamente contraddistinguere il predetto scambio di flussi di cassa tra i due soggetti contraenti.
Perché sia garantito un sano equilibrio tra le posizioni dei due contraenti, è stato ritenuto indispensabile che lo scambio di flussi legato al differenziale tra i due rispettivi tassi di interesse, al momento della stipula dell’operazione, sia pari a zero, “altrimenti il contratto partirà squilibrato a favore di uno dei due contraenti, evidenziando una possibile patologia della fattispecie negoziale”.
In sostanza, il Tribunale di Orvieto ha censurato quel comportamento degli istituti bancari, largamente diffuso nella prassi, consistente nell’occultare una situazione di mark to market negativo per il cliente già al momento della stipula dello swap.
La riflessione del Tribunale di Orvieto è tanto semplice quanto logica: non può avere senso per un cliente (e men che meno per un ente pubblico) l’acquisto di un prodotto swap che presenti, già al momento della sua sottoscrizione, un flusso di cassa negativo in quanto, in tali casi, ciò che viene a mancare è la stessa causa concreta del contratto di swap, ossia lo “scopo pratico del negozio”. Tale carenza di causa concreta – ove riscontrata – inficia la validità genetica del contratto, alla luce del principio generale di cui all’art. 1418, secondo comma, cod. civ.
Peraltro, il ragionamento generale sopra sviluppato non impedisce al nostro ordinamento di consentire l’ingresso a figure di strumenti derivati caratterizzati da un iniziale squilibrio di prestazioni tra le parti: è il caso dei derivati cosiddetti non par che, come pure precisato dalla Consob in sede di audizione parlamentare, “presentano al momento della stipula un valore di mercato negativo per una delle controparti, poiché uno dei due flussi di pagamento non riflette il livello dei tassi di mercato”(1).
Il Tribunale di Orvieto ha tuttavia ricordato che quest’ultima tipologia di derivati, per ottenere un crisma di legittimità dall’ordinamento, necessita di un indispensabile correttivo iniziale: l’erogazione di un up front (ossia di una somma di denaro) a favore del cliente, in misura tale da compensare integralmente la situazione di squilibrio finanziario tra le parti. In altre parole, perché un contratto derivato non par sia legittimo, occorre che l’up front sia dello stesso ammontare del valore di mercato negativo del contratto.
Nel caso oggetto di commento, i giudici hanno verificato che tutte le operazioni sottoscritte dal Comune di Orvieto presentavano, al momento della loro stipula, un differenziale iniziale negativo per l’ente pubblico e che gli up front, ancorchè erogati in qualche caso dalla banca, non erano di entità tale da riequilibrare il valore negativo del mark to market.
Per di più, nei casi di prodotti swap sottoscritti dal Comune con la finalità di rinegoziare precedenti derivati che già avevano prodotto dei flussi di cassa negativi per l’ente, il Tribunale ha rimarcato l’estraneità di tali operazioni rispetto alle finalità istituzionali generalmente perseguibili da una pubblica amministrazione locale che – lo ricordiamo – è ammessa dalla legge ad impegnarsi in operazioni di strumenti derivati soltanto a fini conservativi (art. 41, legge 448/2001; art. 3, d.m. 389/2003).
Su quest’ultimo punto, la presa di posizione del Tribunale di Orvieto è quasi sorprendente per la sua perentorietà ed originalità: a detta dei giudici umbri, l’attività di rinegoziazione di uno swap “costituisce di per sé una deviazione dalla normale operatività in derivati che un ente pubblico può compiere in ossequio alle esigenze di copertura del debito”. Dunque, secondo tale prospettazione, non può essere consentito ad un Comune, al fine di scongiurare l’imminente addebito di differenziali negativi, di ristrutturare il derivato accettando nell’immediato di incamerare liquidità ma al contempo accollandosi un nuovo derivato dal valore già negativo, spostando solo più in là nel tempo il rischio di andare incontro a flussi di cassa negativi. Tutto ciò non rientrerebbe nelle finalità conservative connesse all’attività finanziaria di un ente pubblico ma sfocerebbe, nella sostanza, in un’operazione negoziale non già di copertura bensì dal significato intrinsecamente aleatorio.
Ove tale ultima tesi dovesse trovare ulteriore credito da parte della giurisprudenza di merito, gli effetti che ne deriverebbero sui rapporti tra banche ed enti pubblici potrebbero rivelarsi travolgenti: infatti, l’ordinanza in rassegna finisce per delineare le ristrutturazioni di derivati aventi valore negativo (prassi molto diffusa) come operazioni intrinsecamente speculative e perciò stesso vietate alle pubbliche amministrazioni.
Ma la ricca ed articolata ordinanza in commento offre altresì una interessante interpretazione sulla validità della nota e controversa “autocertificazione” ex art. 31, reg. CONSOB n. 11522/98, alla stregua del celebre arret della Corte di Cassazione (sentenza n. 12138 del 2009, già commentata su DERIVATI.INFO: link).
Il soggetto intermediario – secondo il Tribunale di Orvieto – non può mai essere esonerato dal compiere quella necessaria attività di trasferimento verso il cliente del suo bagaglio di informazioni e conoscenze tecniche riguardanti lo specifico strumento finanziario che si intende negoziare ed è inoltre sempre tenuto (soprattutto quando si tratta di strumenti finanziari altamente complessi) a rendere edotto il cliente circa il reale significato della dichiarazione ex art. 31. Soltanto dopo avere adempiuto a tali preliminari doveri informativi la banca potrà quindi prendere per buona la dichiarazione di un cliente che attesti di avere sufficiente esperienza e conoscenza in strumenti finanziari e soltanto in tale contesto, infine, la stessa banca potrà sentirsi esonerata dal compiere ulteriori verifiche sulla rispondenza a veridicità della dichiarazione rilasciata dal cliente.
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Link al provvedimento:
http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/7314.php
(1) Audizione della Consob alla VI^ Commissione Finanze e Tesoro del Senato, 18 marzo 2009.
30 Giugno 2012 Nessun commento
MARK TO MARKET, DANNO E TRUFFA CONTRATTUALE AL VAGLIO DELLA CORTE DI CASSAZIONE
Commento di Giorgio Mantovano a Cassazione penale, n. 47421 del 2011, pubblicato su “Rivista italiana di diritto e procedura penale”
16 Dicembre 2011 Nessun commento
NOTE CRITICHE A CASSAZIONE, SEZIONE II PENALE N. 47421-2011
commento a cura degli avvocati Luca Zamagni e Matteo Acciari (Axiis Network Legale)
Con sentenza n. 47421 del 21 dicembre 2011, la seconda Sezione penale della Corte di Cassazione ha dichiarato l’inammissibilità dei ricorsi presentati dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Messina, nonché dai Comuni di Messina e Taormina, con i quali era stata impugnata un’ordinanza emessa dal Tribunale del Riesame di Messina in data 1 giugno 2011.
L’ordinanza impugnata disponeva il dissequestro di alcune somme sottoposte a sequestro preventivo, siccome qualificate dalla Procura della Repubblica (e dal GIP presso il Tribunale di Messina, che nel proprio decreto aveva accolto le prospettazioni del PM) quale provento dell’uso asseritamente fraudolento di contratti di interest rate swap, stipulati dai suddetti Enti territoriali con una Banca. [Continua a leggere →]
La sentenza n. 47421/2011 della Corte di Cassazione, che come anzidetto ha dichiarato l’inammissibilità dei ricorsi promossi avanti ad essa per i casi di Messina e Taormina, appare chiaramente rivolta ad esaminare la questione degli swaps degli Enti locali al solo fine di acclarare se nella fattispecie sottoposta alle sue cure fosse dato rinvenire la presenza di quei requisiti che la norma processuale penale richiede sussistano per consentire il sequestro penale dei proventi del delitto che i ricorrenti lamentano essersi consumato ad opera della banca. E’ dunque anzitutto evidente come le considerazioni lateralmente svolte dalla Suprema Corte, su questioni finanziarie o di diritto finanziario, non possano né debbano frettolosamente assumersi quale fonte cristallizzata del pensiero della Cassazione in tema di swaps (ammesso che al riguardo ve ne sia già uno e che esso sia univoco), almeno laddove l’interpretazione resa risponda, come in questo caso, a criteri ermeneutici propri di una specifica sedes materiae. Purtuttavia, ed anzi probabilmente proprio in ragione del fatto che la Cassazione nella anzidetta sentenza n. 47421 era occupata da accertamenti “altri” rispetto a quelli che altrove si pongono a torto o a ragione al centro del contenzioso tra Enti locali ed intermediari in materia di derivati finanziari, della decisione del 21 dicembre 2011 appare utile approfondire alcune affermazioni che, già analizzate criticamente da autorevoli studiosi della materia economica e finanziaria e da operatori professionali del settore finanziario [1], risultano rese dai Giudici di legittimità senza un approfondito vaglio, e ciononostante già si rinvengono ripetute in taluni provvedimenti giudiziari successivamente resi [2]. * Muovendo dalla citata prospettiva, e tralasciando quindi di ingaggiare le questioni d’ordine prettamente penalistico poste al centro della decisione resa dalla Suprema Corte, ciò che anzitutto lascia perplessi nella sentenza n. 47421/2011 è l’omessa contestualizzazione della vicenda in riferimento alla normativa settoriale (o meglio, alla ratio ispiratrice della medesima) dedicata ai derivati degli Enti territoriali. Si afferma nella pronuncia in commento che “per poter stabilire se quel dato [ci si riferisce al valore del mark to market del contratto derivato sottoscritto dall’Ente locale, NdR] rappresenti o meno un vantaggio o un danno per l’Ente contraente, occorre procedere ad una disamina a posteriori, allorché, cioè, il contratto abbia raggiunto la sua normale scadenza […]”.
Si afferma, altresì che “[…] l’ordinanza impugnata ha correttamente posto in luce la circostanza che, alla stregua delle risultanze processuali acquisite […] fosse emersa la sostanziale convenienza della operazione finanziaria realizzata dai Comuni interessati, dovendosi fare riferimento agli effetti che i contratti avevano prodotto sulle finanze comunali in termini di cassa e non di competenza”.
Si ritiene che affermazioni di tale tenore non possano reputarsi compatibili con le prescrizioni dell’art. 41 Legge n. 448/2001, vera e propria Grundnorm in materia di operatività in derivati degli Enti locali.
E difatti l’art. 41 della Legge n. 448/2001, nel rendere esplicito che il ricorso alle operazioni finanziarie da esso elencate (fra le quali si è soliti ricondurre, secondo l’unanime opinione della dottrina e della giurisprudenza, anche quelle in strumenti derivati) è possibile “al fine di contenere il costo dell’indebitamento” senza parimenti disporre, neanche in via mediata, che la valutazione di un tale contenimento (ovvero della convenienza economica dell’operazione intrapresa dall’Ente pubblico) sia effettuata al termine del contratto, dovendosi anzi dire che la previsione di tale valutazione quale attività prodromica alla valida assunzione del vincolo contrattuale depone per un apprezzamento della convenienza economica condotto a priori e non a posteriori, giacché in tale ultima eventualità l’obiettivo della norma, al pari del suo valore precettivo, ne risulterebbe evidentemente frustrato.
In altre parole, quando il Legislatore ebbe a redigere il testo dell’art. 41 della Legge n. 448/2001 (così come la successiva normativa regolamentare e di dettaglio), aveva ben presente che l’elemento fondamentale per valutare la convenienza dell’operatività in derivati è il costo di quella operatività[3], da intendersi non certo come risultato da valutare a contratto eseguito e concluso, bensì come onere connesso alla sottoscrizione del contratto al momento della sua stipulazione, elemento che incide anche sulla valutazione del derivato come avente funzione speculativa più che di copertura.
Tale assunto è ben presente alla giurisprudenza più abituata a trattare la materia finanziaria, con la quale il ragionamento espresso dalla sentenza n. 47421 resa dalla seconda Sezione penale della Corte di Cassazione appare porsi in netto contrasto. A titolo esemplificativo, la Sezione Regionale di Controllo per la Lombardia della Corte dei Conti, nella Deliberazione n. 596/2007[4] ha assunto un approccio interpretativo ben distante da quello dei giudici di Piazza Cavour, affermando come: “in relazione al requisito della “riduzione del costo finale del debito” occorre ancora precisare che l’effetto del derivato (sia lo swap su tassi di cambio, che è obbligatorio, che lo swap da tasso di interesse da variabile a fisso, o viceversa, o l’acquisto di un opzione nei limiti nei quali è consentita) potrebbe risolversi per l’ente in un onere complessivo finale più elevato rispetto a quello che si sarebbe avuto se non si fosse conclusa l’operazione finanziaria. Conseguentemente, al riguardo, è fondamentale stabilire se il giudizio di merito sull’operazione debba essere dato con una valutazione ex post, vale a dire che utilizzi quale parametro l’effettivo esito dell’operazione, ovvero con una valutazione ex ante, che assuma quale punto di riferimento non l’effettivo esito dell’operazione, ma quello prevedibile al momento della conclusione, in relazione alle circostanze conosciute o conoscibili da chi ha stipulato il contratto. A seconda della prospettiva scelta l’acquisto di derivati di “copertura” può rientrare o meno nel concetto di “riduzione del costo finale del debito”, intesa come riduzione meramente eventuale in relazione a possibili, ma incerte, variazioni dei mercati finanziari, che, per l’appunto, il derivato può proporsi di neutralizzare, stabilizzando il debito. Ferma restando ogni perplessità in ordine alla natura del contratto che, considerata la durata, è caratterizzato dalla elevata aleatorietà dell’evoluzione dei tassi d’interesse, è evidente che se il legislatore ammette che possa essere concluso dagli enti territoriali, la valutazione sulla convenienza economica non può che svolgersi ex ante, vale a dire in relazione al momento della conclusione del contratto”. L’orientamento espresso dalla magistratura contabile, che depone chiaramente a favore di una valutazione ex ante della convenienza economica dei contratti derivati degli Enti locali, è stato altresì suggellato nelle parole che le Sezioni Riunite in sede di Controllo della medesima Corte dei Conti hanno reso il 18 febbraio del 2009[5] alla VI Commissione “Finanze e Tesoro” del Senato in occasione del ciclo di Audizioni effettuate nell’ambito della “Indagine conoscitiva sull’utilizzo e la diffusione degli strumenti di finanza derivata e delle cartolarizzazioni nelle pubbliche amministrazioni”. In tale sede, difatti, le Sezioni Riunite hanno affermato come: “uno degli aspetti più delicati in ordine alle attività di controllo nella materia in questione riguarda l’accertamento della convenienza economica che deve essere valutata in relazione alle conoscenze e cognizioni acquisite dalle parti al momento della conclusione del contratto”, e dunque a priori, e che: “al riguardo occorre rilevare che un’analisi completa degli aspetti finanziari non può prescindere dalla verifica delle curve forward dei tassi di interesse che sicuramente l’intermediario finanziario ha attentamente valutato prima di addivenire alla conclusione del contratto”.
E’ dunque chiaro alla magistratura contabile che la valutazione di convenienza rimessa alle parti dal dettame dell’art. 41 Legge n. 448/2001 sia attività prodromica alla stipulazione del contratto in derivati il quale, in difetto di un esito positivo della valutazione di convenienza condotto alla luce dei dati emergenti dalla documentazione sopra richiamata, non potrà essere affatto stipulato.
A tale conclusioni è giunta anche la magistratura civile nella nota sentenza n. 5118 resa dal Tribunale di Milano il 14 aprile 2011[6]. Nell’affrontare il tema della sussistenza della convenienza economica di uno swap negoziato da un Ente locale, il Tribunale meneghino ha infatti anch’esso concluso che: “sono nulli per difetto di causa in concreto i contratti swap sottoscritti da enti pubblici che alla data di sottoscrizione presentino mark to market negativo (c.d. swap non par) ove l’equilibrio sinallagmatico non sia ripristinato mediante erogazione di un premio corrispondente in sede di sottoscrizione del derivato”, ritenendo che: “il mtm negativo alla sottoscrizione dei contratti, tanto più se non esplicitato, attribuisce ai contratti swap una funzione speculativa in contrasto con la tipologia di contratti derivati rimessi alla possibile stipulazione da parte degli Enti Locali dall’art. 41 co. 1 L. 448/2001 e dall’art. 3 DM 389/2003”[7]. Ed ancora, l’isolamento in cui si inserisce la valutazione proposta dalla sentenza n. 47421 resa dalla seconda Sezione penale di Cassazione sul tema della valutazione di convenienza economica risulta confermato leggendo il ragionamento espresso dal Consiglio di Stato, nella sentenza n. 5032, resa dalla Sezione V il 7 settembre 2011 nell’ambito del contenzioso che coinvolge la Provincia di Pisa[8].
Anche i giudici di Palazzo Spada hanno infatti statuito chiaramente che: “in base a tale substrato normativo [ci si riferisce in particolare all’art. 41 Legge n. 448/2001 ed all’art. 3 Decreto MEF n. 389/2003, NdR] non può negarsi che la convenienza economica della ristrutturazione del debito, come del resto già accennato in precedenza, costituisse effettivamente la “causa” della stessa procedura di gara indetta dall’amministrazione provinciale di Pisa, avendo quest’ultima l’obiettivo di ridurre la sua esposizione debitoria e verosimilmente poter disporre di una maggiore liquidità da utilizzare per la tutela degli altri interessi pubblici affidati alle sue cure: la complessiva operazione di ristrutturazione del debito, del resto, secondo la stessa ratio ispiratrice del citato articolo 41 della legge 28 dicembre 2001, n. 441, intendeva coniugare i vari interessi in gioco di contenimento della spesa pubblica, assicurando agli enti locali la possibilità di far fronte alla cura e alla tutela delle funzioni loro affidate, attraverso un’accorta politica di gestione economico-finanziaria anche del bilancio e delle relative poste passive. A ciò consegue che l’esistenza di “costi impliciti”, sia pur riscontrati dall’amministrazione provinciale solo dopo la conclusione del contratto, incideva effettivamente sulla convenienza economica dell’operazione di ristrutturazione del debito, diminuendone la sua stessa efficacia, a nulla rilevando la prospettazione, peraltro meramente formalistica, degli appellanti secondo cui gli strumenti finanziari derivati non sarebbero strumenti di debito e come tale non rientrerebbero nell’ambito di applicazione del ricordato articolo 41 della legge 28 dicembre 2001, n. 10: è sufficiente replicare al riguardo che i derivati costituivano lo strumento stesso attraverso cui si realizzava concretamente l’operazione di ristrutturazione del debito, così che essi (ed in particolare i loro “costi impliciti”, non facilmente riscontrabili dall’amministrazione e neppure dichiarati dalle banche) non possono non rientrare e non essere valutati ai fini della convenienza economica della operazione stessa e negli obiettivi con essa perseguiti”. Ma vi è di più. Vige attualmente nel nostro ordinamento un divieto temporaneo di stipulazione di nuove operazioni in derivati per gli Enti territoriali, introdotto dall’ art. 62 comma VI del Decreto Legge n. 112/2008, convertito in Legge n. 133/2008, normativa, come noto, sottoposta a verifica di costituzionalità da parte della Corte Costituzionale. Nella propria Sentenza n. 52 del 18 febbraio 2010[9] il Giudice delle Leggi, dopo aver ritenuto la legittimità del richiamato divieto normativo di stipulazione dei contratti derivati da parte degli Enti territoriali, la natura fortemente aleatoria degli strumenti di finanza derivata ed il carattere di oggettiva pericolosità per l’equilibrio della finanza locale di siffatte tipologie di operazioni, ha altresì stigmatizzato come consentire agli Enti locali il perdurante utilizzo degli strumenti derivati esponga la finanza ed i bilanci pubblici al rischio di assumere oneri impropri, in quanto: “la realtà ha ampiamente dimostrato che persino le operazioni di rinegoziazione dei contratti derivati, a seguito di ristrutturazione del debito, nel prevedere fin dall’inizio condizioni di sfavore degli enti, comportano l’assunzione di rischi aggiuntivi mediante lo spostamento nel tempo degli oneri derivanti da condizioni ancora più penalizzanti rispetto a quelle iniziali”. E’ evidente che, se la Corte Costituzionale si fosse ritenuta vincolata ad un esame della convenienza economica dei soli effetti “a scadenza” di uno swap, essa non avrebbe potuto rendere le affermazioni sopra riportate.
Appare dunque in modo lampante dalla breve rassegna che precede come un corretto apprezzamento della normativa di settore deponga a favore della tesi secondo cui il momento in cui devono valutarsi i contratti (e la loro convenienza economica) è quello della relativa accensione e non già quello della loro conclusione.
E’ d’altro canto nella prospettiva di una valutazione a priori che acquisisce significato il carattere par o non par del contratto medesimo e si comprende appieno la funzione dell’up front.
Nelle parole della Consob: “i contratti non par […] presentano al momento di stipula un valore di mercato negativo per una delle due controparti, poiché uno dei due flussi di pagamento non riflette il livello dei tassi di mercato. […] i termini finanziari della transazione vengono riequilibrati attraverso il pagamento di una somma di denaro […]; tale pagamento, che dovrebbe essere pari al valore di mercato negativo del contratto, prende il nome di up front”[10].
L’omessa (o la parziale) corresponsione, al momento della stipula o della rimodulazione del contratto, dell’up front al contraente svantaggiato da parte del contraente avvantaggiato, costituisce il costo implicito (altrimenti definibile anche come costo occulto o commissione implicita). Il costo implicito altro non è se non la rappresentazione “plastica” della deminutio patrimonii subita dal cliente, cui corrisponde un indebito (ed occulto) arricchimento del contraente bancario. Ossia, in altre parole, l’ingiusto profitto.
Al riguardo, proprio in tema di quantificazione del costo implicito nell’ambito dei contratti swap, ad oggi si confrontano tesi diverse, ancorché deve oramai convenirsi che le diversità di opinioni al riguardo attengano appunto al quantum del costo implicito, piuttosto che, come accadeva in passato, alla sua stessa esistenza[11]. Come visto, sono molteplici le considerazioni che suggeriscono la conclusione che l’orientamento espresso dalla seconda Sezione penale della Suprema Corte nella sentenza n. 47421 del 21 dicembre 2011, in tema di “convenienza economica” debba essere rimeditato, e a ciò deve aggiungersi che un’opera di rimeditazione non potrà che involgere la connessa questione di una corretta qualificazione giuridica del mark to market dei contratti derivati.
Si legge infatti nella pronuncia in commento che il “mark to market non esprime affatto un valore concreto e attuale, ma esclusivamente una proiezione finanziaria basata sul valore teorico di mercato in caso di risoluzione anticipata” (in argomento si è efficacemente parlato di “metafisica giurisprudenziale”[12]).
Il dato appare errato, esprimendo invece il mark to market il valore di mercato del derivato ad un dato momento, coincidente con quello in cui tale valore è rilevato. E tale valore (che può essere positivo o negativo per l’uno, come per l’altro contraente) è la risultante dell’attualizzazione dei flussi differenziali a scadenza al momento della rilevazione.
Non per questo, tuttavia, il mark to market è una posta, per così dire, “virtual- probabilistica” ed accessoria del contratto, come pare invece sostenere la sentenza della Cassazione. Sembra infatti che i giudici della Suprema Corte abbiano confuso la rilevazione di un valore storicamente dato, qual è il mark to market all’atto della stipula del contratto, con le previsioni sui futuri mark to market che il contratto potrà assumere che sono necessariamente caratterizzati da un margine di aleatorietà, siccome funzione dell’andamento delle variabili finanziarie.
Al contrario, all’atto della rilevazione (ed in primis, all’atto dell’accensione del derivato), il mark to market esprime il valore del contratto nel momento esatto di rilevazione e dunque, perdendosi ogni apprezzamento futuro del medesimo, il suo valore concreto (a cui il contratto potrà essere stipulato, trasferito o ceduto).
E’ così, in un’ottica di contrasto alla visione di “virtualità” del concetto che è stata espressa dalla Cassazione penale, giova in questa sede[13] rammentare come a favore di una contraria “concretezza” del mark to market depongano:
(i) i principi contabili internazionali (ed in particolare allo IAS 39), in base ai quali i derivati sono classificati quali “attività / passività finanziaria al fair value rilevato a conto economico”, in quanto tali appostati a bilancio dagli intermediari finanziari. In tal senso, come è stato giustamente osservato “è in gioco, anche, che lo squilibrio originario del derivato a vantaggio della banca costituisca un vantaggio patrimoniale astrattamente rilevante a fini di appostazione a conto economico e quindi costituisca un profitto economico”[14];
(ii) il preciso obbligo che gli stessi Enti locali hanno di rappresentare nei propri bilanci l’operatività in derivati, a mezzo dell’allegazione di apposita nota indicante la valutazione degli oneri e dei rischi finanziari correlati al contratto derivato (cfr. art. 1 comma 383 Legge n. 244/2007, ripreso dall’art. 62 comma 8 D.L. n. 112/2008, n. 112, convertito in Legge n. 133/2008, nel testo risultante a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 3 Legge n. 203/2008)[15], con le note conseguenze anche in ordine al rispetto, o meno, da parte degli Enti locali, dei vincoli del cd. “Patto di Stabilità”; (iii) le periodiche rilevazioni del mark to market dei contratti derivati che influenzano altresì l’assegnazione dei giudizi sul merito di credito degli Enti locali (ossia il loro rating), giudizi attribuiti agli Enti anche dalle stesse banche controparti in ossequio ai principi espressi da Basilea; (iv) il fatto che sin dal gennaio del 2005 il mark to market dei derivati è comunicato dalle banche alla Centrale dei Rischi della Banca d’Italia, e dunque spiega effetto sullo stesso accesso al credito bancario.
* In conclusione, la lettura della sentenza della Cassazione in una chiave che, usando una locuzione ancora recentemente in voga potremmo definire “giusfinanziaria”[16], rende manifesto più di un dubbio sulla non corretta valutazione di concetti finanziari e della normativa settoriale da parte della Suprema Corte. L’auspicio è che possano esservi per i giudici di legittimità occasioni prossime venture per tornare in maniera più meditata sui suddetti concetti e sulle richiamate normative, adottando le dovute correzioni di rotta.
NOTE
[1] S. GALIMBERTI, “Analisi del recente orientamento giurisprudenziale sul mark-to-market alla luce della teoria e prassi matematico-finanziaria”, in www.dirittobancario.it
[2] Ci si riferisce all’Ordinanza 07-08/02/2012 del Tribunale del Riesame di Terni, con la quale il Tribunale annulla il Decreto di sequestro preventivo emesso dal GIP di Orvieto in data 21/01/2012, commentata da D. MAFFEIS, “Swap: il Tribunale annulla il decreto di sequestro preventivo a carico dell’intermediario”, in www.dirittobancario.it
[3] In argomento vedasi le condivisibili valutazioni di CHIAIA P. – SQUASSO S., “Ma i derivati della P.A. erano davvero convenienti?” in “Milano Finanza” dell’11/12/2010, pag. 23.
[4] In www.corteconti.it
[5] In www.corteconti.it
[6] In www.ilcaso.it
[7] Appare utile ricordare come nel provvedimento il Tribunale di Milano abbia anche chiarito che: “La dimensione particolarmente alta del mark to market iniziale (specie se anche superiore al limite posto dall’art. 3 lett. F del DM 389/2003) esclude la possibilità di attribuire a tale squilibrio la funzione causale di corrispettivo dell’intermediario finanziario. L’applicazione da parte dell’intermediario di commissioni non esplicitate è in contrasto con l’art. 61 del Reg. Consob 11522/98”.
[8] In www.giustizia-amministrativa.it
[9] In www.ilcaso.it
[10] Si veda l’Audizione del Direttore generale della Consob Dott. Massimo Tezzon avanti alla VI Commissione “Finanze” della Camera dei Deputati, “Problematiche relative al collocamento di strumenti finanziari derivati” del 30/10/2007, pag. 2 (in termini del tutto conformi vedasi altresì l’Audizione del Direttore generale della Consob Dott. Antonio Rosati avanti alla VI Commissione “Finanze e tesoro” del Senato della Repubblica, “Indagine conoscitiva sulla diffusione degli strumenti di finanza derivata e delle cartolarizzazioni nelle Pubbliche Amministrazioni” del 18/03/2009). Peraltro, in appendice al testo dell’Audizione del 2009, da ultimo citata, sono riportate le “Istruzioni metodologiche per la qualificazione dei rischi e la determinazione dei costi impliciti nei contratti di indebitamento con sottostanti derivati”, nelle quali l’Autorità di Vigilanza (che, come noto, in materia di intermediazione finanziaria è non raramente Legislatore di settore, su delega del Legislatore ordinario) illustra “un approccio metodologico di tipo risk based [ossia basato sulle probabilità o meno di verificazione, all’epoca della stipulazione del contratto, di dati “scenari”, NdR] per la qualificazione dei rischi e la determinazione dei costi impliciti nei contratti di indebitamento con sottostanti derivati”. La metodologia risk based è di fatto stata adottata dallo stesso “Schema di Regolamento MEF di attuazione dell’articolo 62 del D.L. n° 112/2008”, ossia dalla bozza dell’emanando nuovo regolamento, licenziata già da tempo del Ministero dell’Economia, e che dovrebbe disciplinare la futura operatività in derivati degli Enti territoriali.
[11] Secondo una prima corrente di pensiero, che valorizza il disposto dell’Allegato 3 al Regolamento Consob n. 11522/1998, laddove si precisa che “alla stipula del contratto, il valore di uno swap è sempre nullo”, all’atto di accensione dello swap i contraenti devono poter fare affidamento sul valore nullo del mark to market: dopotutto, le parti stanno effettuando una “scommessa” sul futuro valore del contratto e la “vittoria” o la “sconfitta” di un giocatore sull’altro è funzione della correttezza o meno delle diverse assunzioni previsionali sui futuri scenari elaborate da ciascun contraente. Discende da tale impostazione che nell’ipotesi in cui uno dei contraenti, all’atto della sottoscrizione dello swap, entri, per così dire, nella “scommessa” in condizioni di vantaggio, debba integralmente compensare lo “svantaggio” patito dell’altro corrispondendogli una somma (l’up front, appunto) di importo pari all’esatto controvalore del “vantaggio” inizialmente acquisito. Secondo altra impostazione – non antitetica, ma certamente diversa rispetto a quella appena sopra esposta – già all’atto dell’accensione dello swap il contraente bancario, che “confeziona” il derivato over the counter, deve poter fare affidamento su taluni margini di copertura dei costi e dei rischi sostenuti (hedging) e su una giusta remunerazione del proprio operato (mark up). Detti importi, in tale prospettiva non solo leciti, ma anche dovuti, andrebbero così “defalcati” dall’importo dell’eventuale up front da riconoscere alla controparte contrattuale. Secondo tale opzione interpretativa, l’attenzione muove dal valore precettivo dell’Allegato 3 del previgente Regolamento Intermediari Consob per ingaggiare il tema dell’equità contrattuale (ossia: remunerazione sì, purché equa) e, in ossequio alle norme di settore (l’art. 21 TUF e le norme di cui agli art. 32 comma V e 61 del previgente Regolamento Intermediari in primis, nonché i rigorosi criteri di cui alla Comunicazione Consob n. DIN/9019104 del 02/03/2009) della trasparenza (la remunerazione è legittima se e solo se il contraente non bancario è stato preventivamente informato dell’esistenza e dell’entità del mark up) .
[12] Cfr. il summenzionato contributo di A. PALETTA, “Il Mark-to-Market degli strumenti finanziari derivati: tra metafisica giurisprudenziale e concretezza delle regole contabili”, cit.
[13] Per una più approfondita disamina vedasi ancora A. PALETTA, “Il Mark-to-Market degli strumenti finanziari derivati: tra metafisica giurisprudenziale e concretezza delle regole contabili”, cit.
[14] D. MAFFEIS, “Swap: il Tribunale annulla il decreto di sequestro preventivo a carico dell’intermediario”, cit.
[15]
Sul punto vedasi la già citata Corte dei Conti, Sezioni Riunite in sede di Controllo, Audizione alla VI Commissione “Finanze e Tesoro” del Senato della Repubblica del 18/02/2009.
[16] Così già E. LA LOGGIA, “Sul regime gius-finanziario della Regione siciliana”, in Giur. tic. 1948, I, 5, recentemente, A. D. SCANO, “I covenants nei contratti di finanziamento all’impresa: garanzie o strumenti atipici di conservazione della garanzia patrimoniale?”, in “Le Operazioni di finanziamento alle imprese”, a cura di I.DE MURO, Giappichelli Editore, Torino, 2010, pag. 85.
11 Dicembre 2011 Nessun commento
CHE FARE?
21 Luglio 2011 Nessun commento
DERIVATI ED ENTI LOCALI: UN’IMPORTANTE PRONUNCIA DEL TAR DI FIRENZE
Commento a cura di Giorgio Mantovano, dottore commercialista, pubblicato sul “Nuovo Quotidiano di Puglia” del 23 dicembre 2010
Prodotti derivati ed enti locali: storia di un rapporto travagliato. E’ di pochi giorni fa la notizia che il Tar Toscana (sentenza n.6579/2010), con una pronuncia destinata ad incidere sui vari contenziosi in atto, ha ritenuto corretti i provvedimenti di autotutela con cui la Provincia di Pisa aveva annullato la procedura di ristrutturazione del proprio debito, ricorrendo a delle operazioni in derivati di copertura dal rischio di tasso. In particolare, l’Amministrazione provinciale aveva indetto una gara ufficiosa per individuare uno o più intermediari finanziari con i quali perfezionare un’operazione di ristrutturazione del proprio debito. La gara era stata vinta da due banche, riunite in associazione temporanea di impresa. L’operazione si era concretizzata nell’emissione di un prestito obbligazionario al tasso variabile Euribor maggiorato dallo spread indicato nell’offerta di gara, per un importo di euro 95.940.000. [Continua a leggere →]
Si erano poi concluse due operazioni di swap per la copertura dal rischio di tasso, finalizzate a garantire che il livello dei tassi di interesse da corrispondere fosse oscillante all’interno di un minimo ed un massimo prestabiliti.
L’Ente aveva poi annullato la procedura, a causa di costi impliciti dell’operazione non dichiarati dalle banche. In particolare, i provvedimenti di autotutela erano stati motivati da una relazione prodotta da una società specializzata, a parere della quale gli swap sottoscritti con le banche avevano, sin dal momento iniziale, un valore negativo a carico della Provincia. Era stata contestata, dunque, una mancanza di parità tra le posizioni contrattuali alla data della stipula degli swap, che aveva generato uno squilibrio a favore delle banche. La sentenza ha sottolineato che detti fatti non erano stati smentiti dalla difesa delle banche, che non era riuscita a dimostrare l’esistenza di un vantaggio per la P.A.. In definitiva, il Tar ha statuito che i provvedimenti di autotutela impugnati erano da ritenere corretti poiché motivati e di rilevante interesse pubblico. In aggiunta,ha affermato che, anche in autotutela, l’annullamento dell’aggiudicazione non produce, alla luce della normativa europea e della legislazione di recepimento, l’automatica inefficacia dei contratti. Per raggiungere tale obiettivo deve essere adito il giudice competente a conoscere dell’esecuzione dei medesimi contratti. La sentenza ha soffermato la propria attenzione su uno dei principali problemi che caratterizzano oggi il contenzioso tra banche ed enti locali. I nodi al pettine riguardano, da una parte, la verifica del valore iniziale dello swap sottoscritto dalle parti. Ci si interroga se esso sia giudicabile equo, ovvero se esista un problema di squilibrio economico iniziale dello strumento finanziario, poiché la banca non ha attribuito ad esso il giusto valore. Dall’altra, ci si chiede se il derivato venduto all’ente locale sia giudicabile idoneo a perseguire l’obiettivo della reale convenienza economica. Si tratta, in estrema sintesi, di valutazioni assai delicate che investono il concetto di mark to market (valore di mercato) e di valore equo (fair value) di uno strumento finanziario, negoziato in un mercato non standardizzato, cosiddetto O.t.c. (over the counter). In poche parole, ad alto rischio di liquidità,nel quale, non essendovi la presenza di un soggetto garante, gli intermediari per tutelarsi dai rischi di insolvenza della controparte, tendono ad aumentare, secondo una logica auto-assicurativa, i prezzi dei contratti. Un mercato in cui, purtroppo, è assente un’adeguata trasparenza del prezzo. Ciò si riflette in sede giudiziale ove si assiste, a colpi di perizie, al confronto tra il fair value stimato dall’Ente ed il valore attribuito dalla banca. L’eventuale disparità, se sfavorevole all’Ente e non resa trasparente, viene interpretata come danno iniziale subito dalla Pubblica Amministrazione. E’ una tesi, ovviamente, non condivisa dall’ABI per la quale i modelli valutativi del prezzo ‘giusto’ trascurerebbero l’esistenza dei costi di strutturazione e amministrazione nonché lo stesso merito di credito dell’ente territoriale. Non terrebbero, inoltre, conto dell’esistenza di un necessario margine d’intermediazione e risulterebbero in conflitto con la normativa di vigilanza della Banca d’Italia che impone il recupero dei costi e la remunerazione dei rischi assunti. Ora, è indubbio che la valutazione degli strumenti finanziari derivati, dovendosi basare su modelli definiti in condizione di incertezza (di tipo probabilistico), si caratterizza come una grandezza Mark to model, dipendente, cioè, dalle ipotesi valutative adottate. Con il risultato che piccole differenze nelle stime possono produrre grandi divergenze nei risultati. Il modello valutativo dovrebbe essere scelto tra quelli accreditati in letteratura e le stime dovrebbero, utilizzando idonee tecniche di calibrazione, fondarsi sui dati disponibili. In definitiva, tutto si riduce a un problema di giudizio su ipotesi valutative, che smentiscono l’esistenza di un solo valor equo e rendono possibile l’esistenza, in un dato momento, di più valori dello stesso derivato, teoricamente ammissibili come equi . Sul punto vedasi l’opinione dello Iasb Expert Advisor Panel (ottobre 2008). Ed è questo, ad oggi, il vero grande problema: il giudizio di equità, su cui si basano anche le indagini penali, presenta un elevato grado di soggettività, acuito dal fatto che i contratti in derivati, sino ad oggi, non hanno riportato i criteri e le regole da utilizzare ai fini della valutazione del fair value. Con buona pace, purtroppo, per la tanto invocata trasparenza.
Giorgio Mantovano
DERIVATI.INFO ringrazia il dott. Giorgio Mantovano per la cortese autorizzazione alla pubblicazione del commento
* * *
N. 06579/2010 REG.SEN.
N. 01667/2009 REG.RIC.
N. 01668/2009 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1667 del 2009, integrato da motivi aggiunti, proposto da:
Dexia Crediop S.p.A. in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Fabio Merusi, con domicilio eletto presso la Segreteria del T.
A.R. in Firenze, via Ricasoli n. 40;
contro
la Provincia di Pisa in persona del competente Dirigente pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Pasquale Vulcano, con domicilio eletto presso Giovanni Calugi in Firenze, via Gino Capponi n. 26;
sul ricorso numero di registro generale 1668 del 2009, proposto da:
Depfa Bank Plc, in persona dei procuratori speciali pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Fabio Merusi e dall’avv. Massimiliano Danusso, con domicilio eletto presso la Segreteria del T.A.R. in Firenze, via Ricasoli n. 40;
contro
la Provincia di Pisa in persona del competente Dirigente pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Pasquale Vulcano, con domicilio eletto presso Giovanni Calugi in Firenze, via Gino Capponi n. 26;
per l’annullamento
quanto al ricorso n. 1667 del 2009 e al ricorso n. 1668 del 2009:
– della determinazione dirigenziale 29 giugno 2009, n. 2799, ad oggetto “ Contratti di interest rate swap per complessivi originari € 95.494.000,00 con Dexia Crediop s.p.a. e Depfa Bank PLC – annullamento”;
– della delibera G.P. Provincia di Pisa 15 luglio 2009 n. 83 ad oggetto “ Individuazione operazione di ristrutturazione del debito – Contratti di interest rate swap con Dexia …….. e Depfa….. annullamento parte delibera G.P. n. 7 del 23 gennaio 2007”
e giusta motivi aggiunti depositati il 13 novembre 2009, per l’annullamento
– della deliberazione C.P. Provincia di Pisa 29 settembre 2009 n. 76, affissa all’Albo Pretorio il 9 ottobre 2009, ad oggetto “ Individuazione operazione di ristrutturazione del debito – Contratti di interest rate swap con Dexia …….. e Depfa….. annullamento parte delibera C.P. n. 60 del 7 giugno 2007”
nonché di ogni altro atto presupposto, conseguente e connesso, ivi compresi gli atti richiamati nella determina 2799/2009 e nella delibera di Giunta 15 luglio 2009 n. 83
e per il risarcimento di tutti i danni subiti e subendi dalla ricorrente per l’effetto dell’illegittimità dei provvedimenti impugnati.
Visti i ricorsi, i motivi aggiunti e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio della Provincia di Pisa;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 19 ottobre 2010 il dott. Alessandro Cacciari e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
La Provincia di Pisa ha indetto una gara ufficiosa per individuare uno o più intermediari finanziari con i quali perfezionare un’operazione di ristrutturazione del proprio debito. La gara è stata vinta dalle società Dexia Crediop s.p.a. e Depfa Bank PLC riunite in associazione temporanea di imprese. L’operazione si è concretizzata nell’emissione di un prestito obbligazionario al tasso variabile Euribor maggiorato dello spread indicato nell’offerta di gara, per un importo di € 95.494.000; la Provincia ha poi perfezionato due operazioni in derivati di copertura dal rischio di tasso, finalizzate a garantire che il livello dei tassi d’interesse da corrispondere fosse oscillante all’interno di un minimo ed un massimo prestabiliti.
La Provincia di Pisa ha poi annullato la procedura poiché sarebbero stati violati l’art. 41 l. 28 dicembre 2001 n. 448 e l’art. 3 della circolare ministeriale 27 maggio 2004 a causa di costi impliciti dell’operazione non dichiarati dalle ricorrenti. Tali provvedimenti sono stati impugnati con i gravami epigrafati, notificati il 9 ottobre 2009 e depositati il 19 ottobre 2009, per violazione di legge ed eccesso di potere sotto diversi profili. Si é costituita la Provincia di Pisa chiedendo la reiezione dei ricorsi.
Motivi aggiunti sono stati notificati il 7 novembre 2009 e depositati il 13 novembre 2009, ed ulteriori motivi aggiunti sono successivamente stati notificati il 30 aprile 2010 e depositati il 3 maggio 2010.
Le ricorrenti hanno inoltre esperito il 26 giugno 2009 azione contrattuale presso l’Alta Corte di Londra, adita sulla base di una pattuizione contrattuale che devolve al giudice inglese la cognizione delle controversie relativamente ai contratti in questione. L’Alta Corte ha dichiarato la propria competenza a conoscere dei contratti intervenuti tra le parti.
All’udienza del 19 ottobre 2010 le cause sono state trattenute in decisione.
DIRITTO
1. Con i ricorsi epigrafati ed articolando in entrambi i gravami le medesime censure le ricorrenti, aggiudicatarie in associazione temporanea di imprese di una gara per la ristrutturazione del debito dell’intimata Provincia, impugnano i provvedimenti con cui questa ha annullato in via di autotutela i propri atti relativi all’affidamento e preteso di considerare privi di effetti i contratti conseguentemente sottoscritti.
1.1 I ricorsi principali sono articolati in tre motivi.
Con primo motivo lamentano che non sarebbe stata inoltrata la comunicazione di avvio del procedimento di autotutela.
Con secondo motivo deducono che non sarebbe stata violata la l. 488/01, poiché questa non si riferirebbe ai contratti derivati ma solo ai mutui contratti degli enti locali successivamente al 31 dicembre 1996 e alla possibilità della loro conversione. Inoltre il derivato non sarebbe configurabile quale passività né il valore iniziale dell’operazione può essere considerato come una commissione o un costo, ma costituirebbe una valorizzazione storica dello swap. L’operazione non rientrerebbe nemmeno nell’ambito di applicazione della circolare ministeriale 27 maggio 2004 poiché questa non statuirebbe alcunché in merito ad una presunta obbligatoria equivalenza tra il valore del livello minimo e quello del livello massimo del tasso d’interesse. Inoltre non sussisterebbe un interesse pubblico all’annullamento degli atti e non sarebbero stati valutati gli interessi dei destinatari. Sotto questi profili gli atti gravati sarebbero quindi viziati per difetto di motivazione.
Con terzo motivo deducono che i provvedimenti di autotutela relativi a procedure di evidenza pubblica non potrebbero estendere i propri effetti al contratto medio tempore stipulato. Pertanto, anche laddove venissero respinti i motivi sopramenzionati, i provvedimenti gravati resterebbero illegittimi nelle parti in cui pretendono di estendere gli effetti dell’annullamento in autotutela anche ai contratti intercorsi tra la Provincia e le ricorrenti, dovendo la prima rivolgersi al giudice competente a conoscere della loro validità che, nel caso di specie, in virtù di apposita pattuizione tra le parti è il giudice inglese.
Le ricorrenti formulano anche richiesta di risarcimento per i danni asseritamente derivanti dal mancato rispetto degli accordi contrattuali tra le parti, e dalla pubblicizzazione della vicenda effettuata dalla Provincia che avrebbe recato loro un danno di immagine.
1.2 Con i primi motivi aggiunti viene impugnato un ulteriore provvedimento di autotutela con cui il Consiglio della Provincia intimata annulla la propria decisione di ristrutturazione del debito, nella sola parte relativa all’operazione in derivati, per i medesimi motivi articolati avverso i provvedimenti impugnati in via principale.
1.3 Con secondi motivi aggiunti le ricorrenti, presa visone del parere dell’impresa consulente della Provincia in base al quale sono motivati per relationem i provvedimenti impugnati, articolano le seguenti censure.
La Provincia si è rivolta ad una società di un gruppo bancario privato anziché ad un’amministrazione pubblica specializzata in materia per ottenere un parere tecnico, e questo costituirebbe un primo profilo di illegittimità: un’amministrazione pubblica infatti non potrebbe adottare un provvedimento unicamente in riferimento a motivazioni privatistiche non previste come atti di un procedimento amministrativo.
Inoltre la relazione tecnica posta a base dei provvedimenti impugnati sarebbe errata. Malamente infatti sarebbe stato determinato il valore del contratto derivato, che peraltro non può essere considerato quale passitività, al momento della sua stipulazione poiché non si sarebbe tenuto conto dei principi contabili internazionali ed in particolare il principio IAS 39 di cui al Regolamento CE 1725/2003: non si terrebbe infatti conto dell’effettivo mercato di riferimento in cui si è collocata l’operazione, che non è stata effettuata su un mercato attivo quale il mercato interbancario, non è liquida ed é priva di qualsiasi garanzia reale.
Il parere inoltre confermerebbe che la questione di presunti costi impliciti non avrebbe a che fare con la convenienza economica di cui alla l. 448/01, che si riferirebbe esclusivamente a condizioni migliorative del prestito obbligazionario rispetto ai mutui in essere e non al contratto derivato per la gestione dei rischi legati alle fluttuazioni del tasso d’interesse, il quale deve garantire che l’oscillazione dei tassi riferiti allo strumento di finanziamento sostitutivo del vecchio debito venga contenuta entro una banda di oscillazione predefinita.
1.4 La Provincia intimata replica puntualmente alle deduzioni delle ricorrenti evidenziando in particolare che l’interesse pubblico all’esercizio dell’autotutela sorgerebbe dalla violazione dei principi di economicità e convenienza economica, anche ai sensi dell’art. 1, comma 136, l. 3 dicembre 2004 n. 311. L’annullamento in autotutela dei provvedimenti di evidenza pubblica implicherebbe poi la caducazione sopravvenuta del contratto nel frattempo stipulato, per il venir meno di uno dei presupposti di efficacia del medesimo.
2. I ricorsi devono essere riuniti per ragioni di connessione oggettiva e soggettiva.
2.1 Il primo motivo di ricorso deve essere respinto. La difesa provinciale ha infatti prodotto una nota in data 5 giugno 2009 che l’Amministrazione intimata aveva indirizzato ad entrambe le banche, nella quale è stata data contestazione puntuale delle criticità rilevate nell’operazione e richiesto lo stralcio della posizione debitoria dell’ente, con diffida dal richiedere il pagamento della successiva scadenza semestrale ed invito a prendere contatto con il Servizio gestione risorse finanziarie ed umane dell’ente stesso (ed indicazione dei recapiti). Le ricorrenti sono state quindi messe in grado di rappresentare le proprie ragioni, e liberamente, a distanza di pochi giorni, hanno preferito avviare un procedimento presso l’Alta Corte di Londra il 26 giugno 2009.
2.2 La trattazione delle ulteriori doglianze relative alla legittimità dei provvedimenti impugnati richiede una ricostruzione delle caratteristiche essenziali dell’operazione avviata dalle ricorrenti con la Provincia intimata al fine della ristrutturazione del suo debito.
Gli swap sono contratti a termine, che prevedono lo scambio a termine di flussi di cassa calcolati con modalità stabilite alla stipulazione del contratto. Questo sistema può permettere di diminuire il rischio connesso, come nel caso di specie, alle fluttuazioni dei tassi di interesse o di cambio. L’Interest Rate Swap è il contratto swap più diffuso, con il quale due parti si accordano per scambiarsi reciprocamente, per un periodo di tempo predefinito al momento della stipula, pagamenti calcolati sulla base di tassi di interesse differenti e predefiniti, applicati ad un capitale nozionale. Non sussiste quindi uno scambio di capitali, ma solo di flussi corrispondenti al differenziale fra i due interessi. Il contratto ha scadenze che superano l’anno e i pagamenti devono essere effettuati a scadenze periodiche, comprese tra i tre e i dodici mesi. Per garantire l’equilibrio tra le parti detto contratto, al momento della stipulazione, deve dare un risultato differenziale pari a zero; in caso contrario risulterà squilibrato a favore di uno dei contraenti.
Nel caso di specie il contratto era stato stipulato il 4 luglio 2007 per la copertura del rischio derivante dalla fluttuazione dei tassi relativi ad un bond (capitale nozionale) emesso dalla Provincia il 28 giugno 2007, e il differenziale sarebbe stato calcolato sulle oscillazioni dell’Euribor. La scadenza delle rate tra i contraenti era stabilita a sei mesi. La Provincia intimata e le ricorrenti avevano anche stabilito che l’oscillazione sulla quale calcolare il differenziale venisse contenuta entro determinati limiti, in modo che se l’Euribor fosse salito oltre il 5,99% (cap), la differenza sarebbe rimasta a carico delle banche; se invece fosse sceso il 4,64% (floor), la Provincia avrebbe comunque continuato a pagare detto tasso.
I provvedimenti di autotutela gravati sono motivati in riferimento alla relazione prodotta alla Provincia da parte della società specializzata Calipso, che ha analizzato l’operazione in questione verificando che gli swap sottoscritti con le banche avevano un valore negativo a carico della Provincia. Tale relazione viene contestata sotto diversi profili con il terzo ricorso per motivi aggiunti, dal quale pertanto è necessario prendere le mosse.
È inconferente che la Provincia si sia rivolta ad un’impresa privata anziché ad un’amministrazione pubblica poiché ciò non influisce sulla legittimità dei provvedimenti adottati, ma al più può essere fonte di responsabilità erariale a carico degli amministratori. Non sembra poi che la provenienza della relazione da un soggetto privato possa viziare l’intero procedimento e l’atto finale del medesimo posto che è usuale, in ogni procedimento amministrativo, che l’amministrazione utilizzi anche documenti di privati, basti ricordare le istanze private che avviano un procedimento o i documenti e le memorie che gli interessati possono presentare nel corso del procedimento ai sensi dell’art. 10 della legge 7 agosto 1990, n. 241.
Quanto ai lamentati vizi intrinseci della relazione la difesa delle ricorrenti non appare convincente. Come correttamente replica la difesa provinciale, infatti, l’esposizione in derivati non è equivalente all’esposizione di un finanziamento in capitale, poiché nel derivato essa è rappresentata dai differenziali che sono l’eccesso dell’interesse calcolato sul capitale rispetto ad un certo limite. Sono quindi inconferenti le doglianze delle ricorrenti relative al rischio di mercato. La contestata relazione d’altra parte non considera quale passività i derivati in sé, ma individua l’assenza di convenienza economica per la Provincia nell’operazione in questione a causa della mancanza di parità tra le posizioni contrattuali iniziali, che ha portato ad uno squilibrio a suo sfavore. Questi fatti non vengono smentiti dalla difesa delle ricorrenti che non riesce a dimostrare l’esistenza di un vantaggio, nell’operazione in questione, per l’Amministrazione. Un differenziale negativo costituisce indubbiamente una passività per essa.
Appare quindi effettivamente violata la disposizione di cui all’art. 41, comma 2, l. 448/01 poiché nell’operazione in questione non è stato raggiunto l’obiettivo posto dalla suddetta norma di assumere condizioni di rifinanziamento dei mutui contratti dopo il 31 dicembre 1996 con il collocamento di titoli obbligazionari, tali da consentire una riduzione del valore delle passività a carico degli enti stessi, al netto delle commissioni. Così non è nel caso di specie, e la differenza di valore tra i contratti derivati da stipulare era stata taciuta dalle banche alla Provincia, ed anche tale circostanza non risulta contestata.
Nessun dubbio poi che l’ambito di applicazione della norma suddetta riguardi il caso di specie poiché il disposto di cui all’art. 41, comma 2, l. 448/01 definisce il proprio perimetro applicativo con riferimento all’emissione di nuove obbligazioni da parte di enti pubblici, come avvenuto nel caso di specie.
Sotto questo profilo i provvedimenti di autotutela impugnati risultano corretti poiché hanno dato conto dei motivi per cui è stato disposto l’annullamento dei precedenti provvedimenti in discussione, e il relativo interesse pubblico consiste nell’evitare un illegittimo esborso finanziario a carico dell’ente, con indebita percezione di vantaggi a favore dei soggetti privati (C.d.S. V, 22 marzo 2010 n. 1672 in diversa fattispecie, ma con principio applicabile al caso in esame).
2.3 Occorre ora verificare come l’annullamento correttamente disposto dalla Provincia intimata si ripercuota sull’assetto contrattualmente definito dei rapporti con le ricorrenti. Si tratta, in altri termini, di valutare in che modo l’adozione di atti di autotutela relativamente a provvedimenti in materia di individuazione del contraente da parte della stazione appaltante influisca sulla sorte del contratto nel frattempo stipulato.
Il Collegio è consapevole che la giurisprudenza amministrativa, assumendosi nel passato competente a giudicare sulla sorte del contratto stipulato in caso di annullamento dell’aggiudicazione, ritenne che ciò comportasse la caducazione del negozio per difetto di un presupposto di efficacia. Tale prospettiva venne ritenuta valida sia in caso di annullamento giudiziale degli atti di evidenza pubblica, sia nel caso in cui fosse l’amministrazione stessa ad autoannulare i propri provvedimenti poiché anche in questa ipotesi, stante la consequenzialità tra aggiudicazione della gara pubblica e stipulazione del relativo contratto, l’eliminazione degli atti della procedura amministrativa implicavano la caducazione automatica degli effetti del contratto successivamente stipulato (C.d.S. V, 28 maggio 2004 n. 3465). Questa prospettiva era fondata sull’opinione che il contratto stipulato all’esito di una procedura di evidenza pubblica fosse il momento terminale di un continuum procedimentale di talché, una volta venuto meno l’antecedente rappresentato dall’aggiudicazione (per un annullamento vuoi giudiziale, vuoi in autotutela) il contratto perdeva efficacia in via automatica, senza necessità di ulteriori provvedimenti che non fossero una presa d’atto da parte del giudice o della stessa amministrazione appaltante. L’effetto caducante era considerato quindi una conseguenza necessaria del venir meno degli atti di evidenza pubblica, vuoi per sentenza vuoi per autotutela, che non richiedeva per il suo verificarsi alcuna pronuncia costitutiva.
Questo era lo stato dell’arte quando la Corte di Cassazione a sezioni unite (ex multis, sentenza n. 27169/07) ritenne che il giudice ordinario e non quello amministrativo fosse competente a giudicare sul contratto di appalto, interpretando la giurisdizione esclusiva amministrativa in tema di procedure di affidamento di contratti pubblici come concludentesi con l’aggiudicazione, senza estensione alla cognizione sul contratto. Quest’ultima, secondo la Cassazione, non poteva che spettare al giudice ordinario poiché tale giudizio si pone nella fase esecutiva del contratto stesso in cui l’individuazione del giudice competente deve essere operata in base all’ordinario criterio di riparto diritti-interessi, e il relativo processo ha ad oggetto appunto diritti soggettivi.
Il giudice amministrativo non si contrappose frontalmente all’assunto della Cassazione ma si ritenne competente a sindacare in sede di ottemperanza il comportamento della stazione appaltante che non prendesse atto della sopravvenuta inefficacia del contratto all’esito dell’annullamento dell’aggiudicazione. Poiché in sede di ottemperanza il giudice amministrativo può sostituirsi all’amministrazione, secondo questa interpretazione non vi sarebbero ostacoli a che esso ordini alla stazione appaltante riottosa di fare subentrare nell’esecuzione del contratto il concorrente vittorioso nel ricorso avverso l’originaria aggiudicazione (C.d.S.A.P. n. 9/2008). La stazione appaltante doveva infatti “prendere atto” della caducazione del contratto e, se non vi avesse provveduto spontaneamente, ben avrebbe potuto farlo il giudice amministrativo adito in sede di ottemperanza.
Tale costruzione deve essere rivista alla luce della direttiva comunitaria 2007/66/CE (in seguito: “Direttiva”) in materia di ricorso contro l’aggiudicazione degli appalti pubblici. In tale normativa infatti il legislatore comunitario si è dato carico di valutare le conseguenze dell’annullamento giudiziale dell’aggiudicazione sul contratto pubblico nel frattempo stipulato, prevedendo il potere dell’organo di ricorso, nel nostro caso il giudice amministrativo, di privarlo di efficacia al concorrere di determinate circostanze e valutando gli interessi in gioco, primo fra tutti quello alla corretta e spedita esecuzione delle prestazioni contrattuali. L’azione volta alla declaratoria di inefficacia del contratto non ha carattere accertativo ma costitutivo poiché, in base agli artt. 121 e 122 del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, al giudice spetta il potere di decidere discrezionalmente (anche nei casi di violazioni gravi) se mantenere o meno l’efficacia del contratto. Ciò vuol dire che l’inefficacia non è conseguenza automatica dell’annullamento dell’aggiudicazione, che determina solo il sorgere del potere in capo al giudice di valutare se il contratto debba o meno continuare a produrre effetti.
La rappresentazione della difesa provinciale è ancorata alla vecchia teoria in base alla quale l’annullamento, anche in autotutela, dell’aggiudicazione comportava l’automatica caducazione del contratto; alla luce della normativa europea e della legislazione di recepimento occorre invece ritenere che non si produce in via automatica l’inefficacia del contratto, ma per raggiungere tale risultato occorre l’intervento di una pronuncia costitutiva dell’organo di ricorso ossia, nell’ordinamento italiano, del giudice amministrativo. Il legislatore ha quindi valutato che l’interesse pubblico, che nella fase precontrattuale attiene alla creazione di un mercato unico europeo, sussista anche nella fase di esecuzione del contratto relativamente però ad un altro bene collettivo, vale a dire la spedita esecuzione dell’opera pubblica, servizio o fornitura. Tale valutazione è però stata riservata alla competenza del giudice amministrativo, “organo di ricorso” secondo la normativa comunitaria, e non alla stazione appaltante medesima. Né la normativa interna né quella comunitaria, infatti, in alcun punto prendono in considerazione l’ipotesi che sia la seconda a poter privare di efficacia il contratto stipulato mediante l’autoannullamento o la revoca dei provvedimenti che hanno portato all’individuazione del contraente, sull’assunto che non può consentirsi ad alcun soggetto, nemmeno se trattasi di ente pubblico, di sciogliersi unilateralmente da un vincolo contrattuale. Pertanto, come correttamente rappresentato nella discussione in pubblica udienza dalla difesa delle ricorrenti, la mancata menzione nella legislazione di un potere di autotutela a favore della stazione appaltante deve essere interpretata nel senso che la valutazione degli interessi connessi alla continuazione nell’esecuzione di un contratto, in caso di violazione della normativa di evidenza pubblica, compete unicamente al giudice e non può invece derivare da un’iniziativa autonoma della stazione appaltante. Tali principi implicano quindi che nel nostro ordinamento non può essere consentito a quest’ultima di influire in modo unilaterale sull’efficacia del contratto stipulato, nemmeno laddove siano individuate violazioni della procedura di evidenza pubblica. Essa dovrà invece adire il giudice competente a conoscere dell’esecuzione del contratto il quale, ai fini della decisione, potrà apprezzare l’avvenuto annullamento dei provvedimenti di evidenza pubblica.
Deve quindi essere accolto il terzo motivo del ricorso principale e, per l’effetto, i provvedimenti impugnati devono essere annullati nelle parti in cui pretendono di togliere efficacia ai contratti stipulati con le ricorrenti, e precisamente nei punti 2) e 3) della determinazione dirigenziale 29 giugno 1999, n. 2799.
2.4 La domanda risarcitoria è inammissibile.
Discende, dalle conclusioni cui il Collegio è pervenuto in merito ai rapporti tra esercizio dell’autotutela e sorte del contratto medio tempore stipulato, che l’autoannullamento degli atti di evidenza pubblica da parte dell’Amministrazione intimata non esercita effetto caducante sui negozi stipulati con le ricorrenti, sicché solo il giudice civile è competente a conoscere delle questioni inerenti il rispetto degli accordi contrattuali intercorsi tra loro. In tale sede giudiziaria le ricorrenti potranno fare valere le proprie pretese per l’asserita inottemperanza agli accordi contrattuali da parte della Provincia intimata.
Quanto alla richiesta risarcitoria per il danno di immagine, essa trae origine da un’intervista rilasciata dal Presidente della Provincia ad un quotidiano, che è apparsa sulla pagina locale del medesimo. A dire delle ricorrenti la pubblicizzazione della vicenda in discussione avrebbe recato un danno alla propria immagine sociale e di mercato, che andrebbe ristorato mediante criteri equitativi. Il Collegio si ritiene incompetente ad esaminare la questione poiché tale asserito danno non è conseguenza diretta dell’emanazione dei provvedimenti impugnati, ma appare causalmente legato al comportamento del presidente provinciale che ha dato risalto alla vicenda de qua. Il danno di cui si asserisce l’esistenza, cioè, non deriva dall’esercizio di un potere amministrativo concretantesi nell’utilizzo di una potestà pubblicistica dell’ente, che rappresenta il perimetro della giurisdizione di questo Giudice (art. 7, d.lgs. 104/20109. La domanda in esame pertanto deve essere dichiarata anch’essa inammissibile per difetto di giurisdizione.
3. In conclusione i ricorsi in esame devono essere accolti parzialmente e respinti per la parte restante, nei sensi di cui sopra, e la domanda risarcitoria deve essere dichiarata inammissibile.
Le spese possono essere compensate in ragione della reciproca soccombenza delle parti.
Il Collegio manda alla Segreteria per la trasmissione degli atti alla Procura della Corte dei Conti, ai fini dell’accertamento di eventuali responsabilità per danno erariale nella vicenda in esame.
P.Q.M.
riuniti i ricorsi in epigrafe li accoglie parzialmente e li respinge per la parte restante. Per l’effetto, annulla i punti 2) e 3) della determinazione dirigenziale 29 giugno 1999, n. 2799. Dichiara inammissibile la domanda risarcitoria.
Spese compensate.
Manda alla Segreteria per la trasmissione degli atti alla Procura della Corte dei Conti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Firenze nelle camere di consiglio dei giorni 19 ottobre e 3 novembre 2010 con l’intervento dei magistrati:
Luigi Papiano, Presidente
Carlo Testori, Consigliere
Alessandro Cacciari, Primo Referendario, Estensore
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 11/11/2010
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
23 Dicembre 2010 Commenti disabilitati su DERIVATI ED ENTI LOCALI: UN’IMPORTANTE PRONUNCIA DEL TAR DI FIRENZE