DERIVATI ED ENTI LOCALI: UN’IMPORTANTE PRONUNCIA DEL TAR DI FIRENZE
Commento a cura di Giorgio Mantovano, dottore commercialista, pubblicato sul “Nuovo Quotidiano di Puglia” del 23 dicembre 2010
Prodotti derivati ed enti locali: storia di un rapporto travagliato. E’ di pochi giorni fa la notizia che il Tar Toscana (sentenza n.6579/2010), con una pronuncia destinata ad incidere sui vari contenziosi in atto, ha ritenuto corretti i provvedimenti di autotutela con cui la Provincia di Pisa aveva annullato la procedura di ristrutturazione del proprio debito, ricorrendo a delle operazioni in derivati di copertura dal rischio di tasso. In particolare, l’Amministrazione provinciale aveva indetto una gara ufficiosa per individuare uno o più intermediari finanziari con i quali perfezionare un’operazione di ristrutturazione del proprio debito. La gara era stata vinta da due banche, riunite in associazione temporanea di impresa. L’operazione si era concretizzata nell’emissione di un prestito obbligazionario al tasso variabile Euribor maggiorato dallo spread indicato nell’offerta di gara, per un importo di euro 95.940.000. [Continua a leggere →]
Si erano poi concluse due operazioni di swap per la copertura dal rischio di tasso, finalizzate a garantire che il livello dei tassi di interesse da corrispondere fosse oscillante all’interno di un minimo ed un massimo prestabiliti.
L’Ente aveva poi annullato la procedura, a causa di costi impliciti dell’operazione non dichiarati dalle banche. In particolare, i provvedimenti di autotutela erano stati motivati da una relazione prodotta da una società specializzata, a parere della quale gli swap sottoscritti con le banche avevano, sin dal momento iniziale, un valore negativo a carico della Provincia. Era stata contestata, dunque, una mancanza di parità tra le posizioni contrattuali alla data della stipula degli swap, che aveva generato uno squilibrio a favore delle banche. La sentenza ha sottolineato che detti fatti non erano stati smentiti dalla difesa delle banche, che non era riuscita a dimostrare l’esistenza di un vantaggio per la P.A.. In definitiva, il Tar ha statuito che i provvedimenti di autotutela impugnati erano da ritenere corretti poiché motivati e di rilevante interesse pubblico. In aggiunta,ha affermato che, anche in autotutela, l’annullamento dell’aggiudicazione non produce, alla luce della normativa europea e della legislazione di recepimento, l’automatica inefficacia dei contratti. Per raggiungere tale obiettivo deve essere adito il giudice competente a conoscere dell’esecuzione dei medesimi contratti. La sentenza ha soffermato la propria attenzione su uno dei principali problemi che caratterizzano oggi il contenzioso tra banche ed enti locali. I nodi al pettine riguardano, da una parte, la verifica del valore iniziale dello swap sottoscritto dalle parti. Ci si interroga se esso sia giudicabile equo, ovvero se esista un problema di squilibrio economico iniziale dello strumento finanziario, poiché la banca non ha attribuito ad esso il giusto valore. Dall’altra, ci si chiede se il derivato venduto all’ente locale sia giudicabile idoneo a perseguire l’obiettivo della reale convenienza economica. Si tratta, in estrema sintesi, di valutazioni assai delicate che investono il concetto di mark to market (valore di mercato) e di valore equo (fair value) di uno strumento finanziario, negoziato in un mercato non standardizzato, cosiddetto O.t.c. (over the counter). In poche parole, ad alto rischio di liquidità,nel quale, non essendovi la presenza di un soggetto garante, gli intermediari per tutelarsi dai rischi di insolvenza della controparte, tendono ad aumentare, secondo una logica auto-assicurativa, i prezzi dei contratti. Un mercato in cui, purtroppo, è assente un’adeguata trasparenza del prezzo. Ciò si riflette in sede giudiziale ove si assiste, a colpi di perizie, al confronto tra il fair value stimato dall’Ente ed il valore attribuito dalla banca. L’eventuale disparità, se sfavorevole all’Ente e non resa trasparente, viene interpretata come danno iniziale subito dalla Pubblica Amministrazione. E’ una tesi, ovviamente, non condivisa dall’ABI per la quale i modelli valutativi del prezzo ‘giusto’ trascurerebbero l’esistenza dei costi di strutturazione e amministrazione nonché lo stesso merito di credito dell’ente territoriale. Non terrebbero, inoltre, conto dell’esistenza di un necessario margine d’intermediazione e risulterebbero in conflitto con la normativa di vigilanza della Banca d’Italia che impone il recupero dei costi e la remunerazione dei rischi assunti. Ora, è indubbio che la valutazione degli strumenti finanziari derivati, dovendosi basare su modelli definiti in condizione di incertezza (di tipo probabilistico), si caratterizza come una grandezza Mark to model, dipendente, cioè, dalle ipotesi valutative adottate. Con il risultato che piccole differenze nelle stime possono produrre grandi divergenze nei risultati. Il modello valutativo dovrebbe essere scelto tra quelli accreditati in letteratura e le stime dovrebbero, utilizzando idonee tecniche di calibrazione, fondarsi sui dati disponibili. In definitiva, tutto si riduce a un problema di giudizio su ipotesi valutative, che smentiscono l’esistenza di un solo valor equo e rendono possibile l’esistenza, in un dato momento, di più valori dello stesso derivato, teoricamente ammissibili come equi . Sul punto vedasi l’opinione dello Iasb Expert Advisor Panel (ottobre 2008). Ed è questo, ad oggi, il vero grande problema: il giudizio di equità, su cui si basano anche le indagini penali, presenta un elevato grado di soggettività, acuito dal fatto che i contratti in derivati, sino ad oggi, non hanno riportato i criteri e le regole da utilizzare ai fini della valutazione del fair value. Con buona pace, purtroppo, per la tanto invocata trasparenza.
Giorgio Mantovano
DERIVATI.INFO ringrazia il dott. Giorgio Mantovano per la cortese autorizzazione alla pubblicazione del commento
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N. 06579/2010 REG.SEN.
N. 01667/2009 REG.RIC.
N. 01668/2009 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1667 del 2009, integrato da motivi aggiunti, proposto da:
Dexia Crediop S.p.A. in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Fabio Merusi, con domicilio eletto presso la Segreteria del T.
A.R. in Firenze, via Ricasoli n. 40;
contro
la Provincia di Pisa in persona del competente Dirigente pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Pasquale Vulcano, con domicilio eletto presso Giovanni Calugi in Firenze, via Gino Capponi n. 26;
sul ricorso numero di registro generale 1668 del 2009, proposto da:
Depfa Bank Plc, in persona dei procuratori speciali pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Fabio Merusi e dall’avv. Massimiliano Danusso, con domicilio eletto presso la Segreteria del T.A.R. in Firenze, via Ricasoli n. 40;
contro
la Provincia di Pisa in persona del competente Dirigente pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Pasquale Vulcano, con domicilio eletto presso Giovanni Calugi in Firenze, via Gino Capponi n. 26;
per l’annullamento
quanto al ricorso n. 1667 del 2009 e al ricorso n. 1668 del 2009:
– della determinazione dirigenziale 29 giugno 2009, n. 2799, ad oggetto “ Contratti di interest rate swap per complessivi originari € 95.494.000,00 con Dexia Crediop s.p.a. e Depfa Bank PLC – annullamento”;
– della delibera G.P. Provincia di Pisa 15 luglio 2009 n. 83 ad oggetto “ Individuazione operazione di ristrutturazione del debito – Contratti di interest rate swap con Dexia …….. e Depfa….. annullamento parte delibera G.P. n. 7 del 23 gennaio 2007”
e giusta motivi aggiunti depositati il 13 novembre 2009, per l’annullamento
– della deliberazione C.P. Provincia di Pisa 29 settembre 2009 n. 76, affissa all’Albo Pretorio il 9 ottobre 2009, ad oggetto “ Individuazione operazione di ristrutturazione del debito – Contratti di interest rate swap con Dexia …….. e Depfa….. annullamento parte delibera C.P. n. 60 del 7 giugno 2007”
nonché di ogni altro atto presupposto, conseguente e connesso, ivi compresi gli atti richiamati nella determina 2799/2009 e nella delibera di Giunta 15 luglio 2009 n. 83
e per il risarcimento di tutti i danni subiti e subendi dalla ricorrente per l’effetto dell’illegittimità dei provvedimenti impugnati.
Visti i ricorsi, i motivi aggiunti e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio della Provincia di Pisa;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 19 ottobre 2010 il dott. Alessandro Cacciari e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
La Provincia di Pisa ha indetto una gara ufficiosa per individuare uno o più intermediari finanziari con i quali perfezionare un’operazione di ristrutturazione del proprio debito. La gara è stata vinta dalle società Dexia Crediop s.p.a. e Depfa Bank PLC riunite in associazione temporanea di imprese. L’operazione si è concretizzata nell’emissione di un prestito obbligazionario al tasso variabile Euribor maggiorato dello spread indicato nell’offerta di gara, per un importo di € 95.494.000; la Provincia ha poi perfezionato due operazioni in derivati di copertura dal rischio di tasso, finalizzate a garantire che il livello dei tassi d’interesse da corrispondere fosse oscillante all’interno di un minimo ed un massimo prestabiliti.
La Provincia di Pisa ha poi annullato la procedura poiché sarebbero stati violati l’art. 41 l. 28 dicembre 2001 n. 448 e l’art. 3 della circolare ministeriale 27 maggio 2004 a causa di costi impliciti dell’operazione non dichiarati dalle ricorrenti. Tali provvedimenti sono stati impugnati con i gravami epigrafati, notificati il 9 ottobre 2009 e depositati il 19 ottobre 2009, per violazione di legge ed eccesso di potere sotto diversi profili. Si é costituita la Provincia di Pisa chiedendo la reiezione dei ricorsi.
Motivi aggiunti sono stati notificati il 7 novembre 2009 e depositati il 13 novembre 2009, ed ulteriori motivi aggiunti sono successivamente stati notificati il 30 aprile 2010 e depositati il 3 maggio 2010.
Le ricorrenti hanno inoltre esperito il 26 giugno 2009 azione contrattuale presso l’Alta Corte di Londra, adita sulla base di una pattuizione contrattuale che devolve al giudice inglese la cognizione delle controversie relativamente ai contratti in questione. L’Alta Corte ha dichiarato la propria competenza a conoscere dei contratti intervenuti tra le parti.
All’udienza del 19 ottobre 2010 le cause sono state trattenute in decisione.
DIRITTO
1. Con i ricorsi epigrafati ed articolando in entrambi i gravami le medesime censure le ricorrenti, aggiudicatarie in associazione temporanea di imprese di una gara per la ristrutturazione del debito dell’intimata Provincia, impugnano i provvedimenti con cui questa ha annullato in via di autotutela i propri atti relativi all’affidamento e preteso di considerare privi di effetti i contratti conseguentemente sottoscritti.
1.1 I ricorsi principali sono articolati in tre motivi.
Con primo motivo lamentano che non sarebbe stata inoltrata la comunicazione di avvio del procedimento di autotutela.
Con secondo motivo deducono che non sarebbe stata violata la l. 488/01, poiché questa non si riferirebbe ai contratti derivati ma solo ai mutui contratti degli enti locali successivamente al 31 dicembre 1996 e alla possibilità della loro conversione. Inoltre il derivato non sarebbe configurabile quale passività né il valore iniziale dell’operazione può essere considerato come una commissione o un costo, ma costituirebbe una valorizzazione storica dello swap. L’operazione non rientrerebbe nemmeno nell’ambito di applicazione della circolare ministeriale 27 maggio 2004 poiché questa non statuirebbe alcunché in merito ad una presunta obbligatoria equivalenza tra il valore del livello minimo e quello del livello massimo del tasso d’interesse. Inoltre non sussisterebbe un interesse pubblico all’annullamento degli atti e non sarebbero stati valutati gli interessi dei destinatari. Sotto questi profili gli atti gravati sarebbero quindi viziati per difetto di motivazione.
Con terzo motivo deducono che i provvedimenti di autotutela relativi a procedure di evidenza pubblica non potrebbero estendere i propri effetti al contratto medio tempore stipulato. Pertanto, anche laddove venissero respinti i motivi sopramenzionati, i provvedimenti gravati resterebbero illegittimi nelle parti in cui pretendono di estendere gli effetti dell’annullamento in autotutela anche ai contratti intercorsi tra la Provincia e le ricorrenti, dovendo la prima rivolgersi al giudice competente a conoscere della loro validità che, nel caso di specie, in virtù di apposita pattuizione tra le parti è il giudice inglese.
Le ricorrenti formulano anche richiesta di risarcimento per i danni asseritamente derivanti dal mancato rispetto degli accordi contrattuali tra le parti, e dalla pubblicizzazione della vicenda effettuata dalla Provincia che avrebbe recato loro un danno di immagine.
1.2 Con i primi motivi aggiunti viene impugnato un ulteriore provvedimento di autotutela con cui il Consiglio della Provincia intimata annulla la propria decisione di ristrutturazione del debito, nella sola parte relativa all’operazione in derivati, per i medesimi motivi articolati avverso i provvedimenti impugnati in via principale.
1.3 Con secondi motivi aggiunti le ricorrenti, presa visone del parere dell’impresa consulente della Provincia in base al quale sono motivati per relationem i provvedimenti impugnati, articolano le seguenti censure.
La Provincia si è rivolta ad una società di un gruppo bancario privato anziché ad un’amministrazione pubblica specializzata in materia per ottenere un parere tecnico, e questo costituirebbe un primo profilo di illegittimità: un’amministrazione pubblica infatti non potrebbe adottare un provvedimento unicamente in riferimento a motivazioni privatistiche non previste come atti di un procedimento amministrativo.
Inoltre la relazione tecnica posta a base dei provvedimenti impugnati sarebbe errata. Malamente infatti sarebbe stato determinato il valore del contratto derivato, che peraltro non può essere considerato quale passitività, al momento della sua stipulazione poiché non si sarebbe tenuto conto dei principi contabili internazionali ed in particolare il principio IAS 39 di cui al Regolamento CE 1725/2003: non si terrebbe infatti conto dell’effettivo mercato di riferimento in cui si è collocata l’operazione, che non è stata effettuata su un mercato attivo quale il mercato interbancario, non è liquida ed é priva di qualsiasi garanzia reale.
Il parere inoltre confermerebbe che la questione di presunti costi impliciti non avrebbe a che fare con la convenienza economica di cui alla l. 448/01, che si riferirebbe esclusivamente a condizioni migliorative del prestito obbligazionario rispetto ai mutui in essere e non al contratto derivato per la gestione dei rischi legati alle fluttuazioni del tasso d’interesse, il quale deve garantire che l’oscillazione dei tassi riferiti allo strumento di finanziamento sostitutivo del vecchio debito venga contenuta entro una banda di oscillazione predefinita.
1.4 La Provincia intimata replica puntualmente alle deduzioni delle ricorrenti evidenziando in particolare che l’interesse pubblico all’esercizio dell’autotutela sorgerebbe dalla violazione dei principi di economicità e convenienza economica, anche ai sensi dell’art. 1, comma 136, l. 3 dicembre 2004 n. 311. L’annullamento in autotutela dei provvedimenti di evidenza pubblica implicherebbe poi la caducazione sopravvenuta del contratto nel frattempo stipulato, per il venir meno di uno dei presupposti di efficacia del medesimo.
2. I ricorsi devono essere riuniti per ragioni di connessione oggettiva e soggettiva.
2.1 Il primo motivo di ricorso deve essere respinto. La difesa provinciale ha infatti prodotto una nota in data 5 giugno 2009 che l’Amministrazione intimata aveva indirizzato ad entrambe le banche, nella quale è stata data contestazione puntuale delle criticità rilevate nell’operazione e richiesto lo stralcio della posizione debitoria dell’ente, con diffida dal richiedere il pagamento della successiva scadenza semestrale ed invito a prendere contatto con il Servizio gestione risorse finanziarie ed umane dell’ente stesso (ed indicazione dei recapiti). Le ricorrenti sono state quindi messe in grado di rappresentare le proprie ragioni, e liberamente, a distanza di pochi giorni, hanno preferito avviare un procedimento presso l’Alta Corte di Londra il 26 giugno 2009.
2.2 La trattazione delle ulteriori doglianze relative alla legittimità dei provvedimenti impugnati richiede una ricostruzione delle caratteristiche essenziali dell’operazione avviata dalle ricorrenti con la Provincia intimata al fine della ristrutturazione del suo debito.
Gli swap sono contratti a termine, che prevedono lo scambio a termine di flussi di cassa calcolati con modalità stabilite alla stipulazione del contratto. Questo sistema può permettere di diminuire il rischio connesso, come nel caso di specie, alle fluttuazioni dei tassi di interesse o di cambio. L’Interest Rate Swap è il contratto swap più diffuso, con il quale due parti si accordano per scambiarsi reciprocamente, per un periodo di tempo predefinito al momento della stipula, pagamenti calcolati sulla base di tassi di interesse differenti e predefiniti, applicati ad un capitale nozionale. Non sussiste quindi uno scambio di capitali, ma solo di flussi corrispondenti al differenziale fra i due interessi. Il contratto ha scadenze che superano l’anno e i pagamenti devono essere effettuati a scadenze periodiche, comprese tra i tre e i dodici mesi. Per garantire l’equilibrio tra le parti detto contratto, al momento della stipulazione, deve dare un risultato differenziale pari a zero; in caso contrario risulterà squilibrato a favore di uno dei contraenti.
Nel caso di specie il contratto era stato stipulato il 4 luglio 2007 per la copertura del rischio derivante dalla fluttuazione dei tassi relativi ad un bond (capitale nozionale) emesso dalla Provincia il 28 giugno 2007, e il differenziale sarebbe stato calcolato sulle oscillazioni dell’Euribor. La scadenza delle rate tra i contraenti era stabilita a sei mesi. La Provincia intimata e le ricorrenti avevano anche stabilito che l’oscillazione sulla quale calcolare il differenziale venisse contenuta entro determinati limiti, in modo che se l’Euribor fosse salito oltre il 5,99% (cap), la differenza sarebbe rimasta a carico delle banche; se invece fosse sceso il 4,64% (floor), la Provincia avrebbe comunque continuato a pagare detto tasso.
I provvedimenti di autotutela gravati sono motivati in riferimento alla relazione prodotta alla Provincia da parte della società specializzata Calipso, che ha analizzato l’operazione in questione verificando che gli swap sottoscritti con le banche avevano un valore negativo a carico della Provincia. Tale relazione viene contestata sotto diversi profili con il terzo ricorso per motivi aggiunti, dal quale pertanto è necessario prendere le mosse.
È inconferente che la Provincia si sia rivolta ad un’impresa privata anziché ad un’amministrazione pubblica poiché ciò non influisce sulla legittimità dei provvedimenti adottati, ma al più può essere fonte di responsabilità erariale a carico degli amministratori. Non sembra poi che la provenienza della relazione da un soggetto privato possa viziare l’intero procedimento e l’atto finale del medesimo posto che è usuale, in ogni procedimento amministrativo, che l’amministrazione utilizzi anche documenti di privati, basti ricordare le istanze private che avviano un procedimento o i documenti e le memorie che gli interessati possono presentare nel corso del procedimento ai sensi dell’art. 10 della legge 7 agosto 1990, n. 241.
Quanto ai lamentati vizi intrinseci della relazione la difesa delle ricorrenti non appare convincente. Come correttamente replica la difesa provinciale, infatti, l’esposizione in derivati non è equivalente all’esposizione di un finanziamento in capitale, poiché nel derivato essa è rappresentata dai differenziali che sono l’eccesso dell’interesse calcolato sul capitale rispetto ad un certo limite. Sono quindi inconferenti le doglianze delle ricorrenti relative al rischio di mercato. La contestata relazione d’altra parte non considera quale passività i derivati in sé, ma individua l’assenza di convenienza economica per la Provincia nell’operazione in questione a causa della mancanza di parità tra le posizioni contrattuali iniziali, che ha portato ad uno squilibrio a suo sfavore. Questi fatti non vengono smentiti dalla difesa delle ricorrenti che non riesce a dimostrare l’esistenza di un vantaggio, nell’operazione in questione, per l’Amministrazione. Un differenziale negativo costituisce indubbiamente una passività per essa.
Appare quindi effettivamente violata la disposizione di cui all’art. 41, comma 2, l. 448/01 poiché nell’operazione in questione non è stato raggiunto l’obiettivo posto dalla suddetta norma di assumere condizioni di rifinanziamento dei mutui contratti dopo il 31 dicembre 1996 con il collocamento di titoli obbligazionari, tali da consentire una riduzione del valore delle passività a carico degli enti stessi, al netto delle commissioni. Così non è nel caso di specie, e la differenza di valore tra i contratti derivati da stipulare era stata taciuta dalle banche alla Provincia, ed anche tale circostanza non risulta contestata.
Nessun dubbio poi che l’ambito di applicazione della norma suddetta riguardi il caso di specie poiché il disposto di cui all’art. 41, comma 2, l. 448/01 definisce il proprio perimetro applicativo con riferimento all’emissione di nuove obbligazioni da parte di enti pubblici, come avvenuto nel caso di specie.
Sotto questo profilo i provvedimenti di autotutela impugnati risultano corretti poiché hanno dato conto dei motivi per cui è stato disposto l’annullamento dei precedenti provvedimenti in discussione, e il relativo interesse pubblico consiste nell’evitare un illegittimo esborso finanziario a carico dell’ente, con indebita percezione di vantaggi a favore dei soggetti privati (C.d.S. V, 22 marzo 2010 n. 1672 in diversa fattispecie, ma con principio applicabile al caso in esame).
2.3 Occorre ora verificare come l’annullamento correttamente disposto dalla Provincia intimata si ripercuota sull’assetto contrattualmente definito dei rapporti con le ricorrenti. Si tratta, in altri termini, di valutare in che modo l’adozione di atti di autotutela relativamente a provvedimenti in materia di individuazione del contraente da parte della stazione appaltante influisca sulla sorte del contratto nel frattempo stipulato.
Il Collegio è consapevole che la giurisprudenza amministrativa, assumendosi nel passato competente a giudicare sulla sorte del contratto stipulato in caso di annullamento dell’aggiudicazione, ritenne che ciò comportasse la caducazione del negozio per difetto di un presupposto di efficacia. Tale prospettiva venne ritenuta valida sia in caso di annullamento giudiziale degli atti di evidenza pubblica, sia nel caso in cui fosse l’amministrazione stessa ad autoannulare i propri provvedimenti poiché anche in questa ipotesi, stante la consequenzialità tra aggiudicazione della gara pubblica e stipulazione del relativo contratto, l’eliminazione degli atti della procedura amministrativa implicavano la caducazione automatica degli effetti del contratto successivamente stipulato (C.d.S. V, 28 maggio 2004 n. 3465). Questa prospettiva era fondata sull’opinione che il contratto stipulato all’esito di una procedura di evidenza pubblica fosse il momento terminale di un continuum procedimentale di talché, una volta venuto meno l’antecedente rappresentato dall’aggiudicazione (per un annullamento vuoi giudiziale, vuoi in autotutela) il contratto perdeva efficacia in via automatica, senza necessità di ulteriori provvedimenti che non fossero una presa d’atto da parte del giudice o della stessa amministrazione appaltante. L’effetto caducante era considerato quindi una conseguenza necessaria del venir meno degli atti di evidenza pubblica, vuoi per sentenza vuoi per autotutela, che non richiedeva per il suo verificarsi alcuna pronuncia costitutiva.
Questo era lo stato dell’arte quando la Corte di Cassazione a sezioni unite (ex multis, sentenza n. 27169/07) ritenne che il giudice ordinario e non quello amministrativo fosse competente a giudicare sul contratto di appalto, interpretando la giurisdizione esclusiva amministrativa in tema di procedure di affidamento di contratti pubblici come concludentesi con l’aggiudicazione, senza estensione alla cognizione sul contratto. Quest’ultima, secondo la Cassazione, non poteva che spettare al giudice ordinario poiché tale giudizio si pone nella fase esecutiva del contratto stesso in cui l’individuazione del giudice competente deve essere operata in base all’ordinario criterio di riparto diritti-interessi, e il relativo processo ha ad oggetto appunto diritti soggettivi.
Il giudice amministrativo non si contrappose frontalmente all’assunto della Cassazione ma si ritenne competente a sindacare in sede di ottemperanza il comportamento della stazione appaltante che non prendesse atto della sopravvenuta inefficacia del contratto all’esito dell’annullamento dell’aggiudicazione. Poiché in sede di ottemperanza il giudice amministrativo può sostituirsi all’amministrazione, secondo questa interpretazione non vi sarebbero ostacoli a che esso ordini alla stazione appaltante riottosa di fare subentrare nell’esecuzione del contratto il concorrente vittorioso nel ricorso avverso l’originaria aggiudicazione (C.d.S.A.P. n. 9/2008). La stazione appaltante doveva infatti “prendere atto” della caducazione del contratto e, se non vi avesse provveduto spontaneamente, ben avrebbe potuto farlo il giudice amministrativo adito in sede di ottemperanza.
Tale costruzione deve essere rivista alla luce della direttiva comunitaria 2007/66/CE (in seguito: “Direttiva”) in materia di ricorso contro l’aggiudicazione degli appalti pubblici. In tale normativa infatti il legislatore comunitario si è dato carico di valutare le conseguenze dell’annullamento giudiziale dell’aggiudicazione sul contratto pubblico nel frattempo stipulato, prevedendo il potere dell’organo di ricorso, nel nostro caso il giudice amministrativo, di privarlo di efficacia al concorrere di determinate circostanze e valutando gli interessi in gioco, primo fra tutti quello alla corretta e spedita esecuzione delle prestazioni contrattuali. L’azione volta alla declaratoria di inefficacia del contratto non ha carattere accertativo ma costitutivo poiché, in base agli artt. 121 e 122 del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, al giudice spetta il potere di decidere discrezionalmente (anche nei casi di violazioni gravi) se mantenere o meno l’efficacia del contratto. Ciò vuol dire che l’inefficacia non è conseguenza automatica dell’annullamento dell’aggiudicazione, che determina solo il sorgere del potere in capo al giudice di valutare se il contratto debba o meno continuare a produrre effetti.
La rappresentazione della difesa provinciale è ancorata alla vecchia teoria in base alla quale l’annullamento, anche in autotutela, dell’aggiudicazione comportava l’automatica caducazione del contratto; alla luce della normativa europea e della legislazione di recepimento occorre invece ritenere che non si produce in via automatica l’inefficacia del contratto, ma per raggiungere tale risultato occorre l’intervento di una pronuncia costitutiva dell’organo di ricorso ossia, nell’ordinamento italiano, del giudice amministrativo. Il legislatore ha quindi valutato che l’interesse pubblico, che nella fase precontrattuale attiene alla creazione di un mercato unico europeo, sussista anche nella fase di esecuzione del contratto relativamente però ad un altro bene collettivo, vale a dire la spedita esecuzione dell’opera pubblica, servizio o fornitura. Tale valutazione è però stata riservata alla competenza del giudice amministrativo, “organo di ricorso” secondo la normativa comunitaria, e non alla stazione appaltante medesima. Né la normativa interna né quella comunitaria, infatti, in alcun punto prendono in considerazione l’ipotesi che sia la seconda a poter privare di efficacia il contratto stipulato mediante l’autoannullamento o la revoca dei provvedimenti che hanno portato all’individuazione del contraente, sull’assunto che non può consentirsi ad alcun soggetto, nemmeno se trattasi di ente pubblico, di sciogliersi unilateralmente da un vincolo contrattuale. Pertanto, come correttamente rappresentato nella discussione in pubblica udienza dalla difesa delle ricorrenti, la mancata menzione nella legislazione di un potere di autotutela a favore della stazione appaltante deve essere interpretata nel senso che la valutazione degli interessi connessi alla continuazione nell’esecuzione di un contratto, in caso di violazione della normativa di evidenza pubblica, compete unicamente al giudice e non può invece derivare da un’iniziativa autonoma della stazione appaltante. Tali principi implicano quindi che nel nostro ordinamento non può essere consentito a quest’ultima di influire in modo unilaterale sull’efficacia del contratto stipulato, nemmeno laddove siano individuate violazioni della procedura di evidenza pubblica. Essa dovrà invece adire il giudice competente a conoscere dell’esecuzione del contratto il quale, ai fini della decisione, potrà apprezzare l’avvenuto annullamento dei provvedimenti di evidenza pubblica.
Deve quindi essere accolto il terzo motivo del ricorso principale e, per l’effetto, i provvedimenti impugnati devono essere annullati nelle parti in cui pretendono di togliere efficacia ai contratti stipulati con le ricorrenti, e precisamente nei punti 2) e 3) della determinazione dirigenziale 29 giugno 1999, n. 2799.
2.4 La domanda risarcitoria è inammissibile.
Discende, dalle conclusioni cui il Collegio è pervenuto in merito ai rapporti tra esercizio dell’autotutela e sorte del contratto medio tempore stipulato, che l’autoannullamento degli atti di evidenza pubblica da parte dell’Amministrazione intimata non esercita effetto caducante sui negozi stipulati con le ricorrenti, sicché solo il giudice civile è competente a conoscere delle questioni inerenti il rispetto degli accordi contrattuali intercorsi tra loro. In tale sede giudiziaria le ricorrenti potranno fare valere le proprie pretese per l’asserita inottemperanza agli accordi contrattuali da parte della Provincia intimata.
Quanto alla richiesta risarcitoria per il danno di immagine, essa trae origine da un’intervista rilasciata dal Presidente della Provincia ad un quotidiano, che è apparsa sulla pagina locale del medesimo. A dire delle ricorrenti la pubblicizzazione della vicenda in discussione avrebbe recato un danno alla propria immagine sociale e di mercato, che andrebbe ristorato mediante criteri equitativi. Il Collegio si ritiene incompetente ad esaminare la questione poiché tale asserito danno non è conseguenza diretta dell’emanazione dei provvedimenti impugnati, ma appare causalmente legato al comportamento del presidente provinciale che ha dato risalto alla vicenda de qua. Il danno di cui si asserisce l’esistenza, cioè, non deriva dall’esercizio di un potere amministrativo concretantesi nell’utilizzo di una potestà pubblicistica dell’ente, che rappresenta il perimetro della giurisdizione di questo Giudice (art. 7, d.lgs. 104/20109. La domanda in esame pertanto deve essere dichiarata anch’essa inammissibile per difetto di giurisdizione.
3. In conclusione i ricorsi in esame devono essere accolti parzialmente e respinti per la parte restante, nei sensi di cui sopra, e la domanda risarcitoria deve essere dichiarata inammissibile.
Le spese possono essere compensate in ragione della reciproca soccombenza delle parti.
Il Collegio manda alla Segreteria per la trasmissione degli atti alla Procura della Corte dei Conti, ai fini dell’accertamento di eventuali responsabilità per danno erariale nella vicenda in esame.
P.Q.M.
riuniti i ricorsi in epigrafe li accoglie parzialmente e li respinge per la parte restante. Per l’effetto, annulla i punti 2) e 3) della determinazione dirigenziale 29 giugno 1999, n. 2799. Dichiara inammissibile la domanda risarcitoria.
Spese compensate.
Manda alla Segreteria per la trasmissione degli atti alla Procura della Corte dei Conti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Firenze nelle camere di consiglio dei giorni 19 ottobre e 3 novembre 2010 con l’intervento dei magistrati:
Luigi Papiano, Presidente
Carlo Testori, Consigliere
Alessandro Cacciari, Primo Referendario, Estensore
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 11/11/2010
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
23 Dicembre 2010 Commenti disabilitati su DERIVATI ED ENTI LOCALI: UN’IMPORTANTE PRONUNCIA DEL TAR DI FIRENZE
IPOTIZZABILE IL REATO DI TRUFFA AI DANNI DI UN COMUNE
Commento a cura di Giorgio Mantovano, dottore commercialista,
a margine dell’ordinanza del GIP di Milano del 23.4.2009
Articolo pubblicato sul “Nuovo Quotidiano di Puglia” del 19 marzo 2010
Stando a quanto riportato dalla stampa, sotto la lente di ingrandimento delle Procure della Repubblica risultano le operazioni in prodotti derivati poste in essere dalla finanza pubblica: ossia da sette Regioni (Calabria, Sicilia, Liguria, Piemonte, Puglia e Toscana), 8 Comuni capoluogo (Pescara, Napoli, Verona, Torino, Messina, Firenze, Terni, Lecce), 2 Province (Brindisi, Torino) e 30 Comuni non capoluogo. [Continua a leggere →]
Le inchieste riguarderebbero contratti per un nozionale pari ad almeno 9,5 miliardi di Euro.
Le amministrazioni non avrebbero adeguatamente compreso che cosa acquistavano e si sarebbero esposte al rischio di perdite ingenti.
Eventualità questa che avrebbe spinto molti enti a dire addio, in anticipo, alla scommessa. L’allarmismo non è solo nostrano.
19 Marzo 2010 Commenti disabilitati su IPOTIZZABILE IL REATO DI TRUFFA AI DANNI DI UN COMUNE
DERIVATI E SICUREZZA NAZIONALE. INCHIESTA SULLA RIVISTA DELL’AISI
Link all’articolo: http://gnosis.aisi.gov.it/
1 Marzo 2010 Nessun commento
PRIMA SENTENZA DELLA CASSAZIONE IN TEMA DI VALIDITA’ DELLA DICHIARAZIONE SUL POSSESSO DELLO STATUS DI “OPERATORE QUALIFICATO”
Commento a cura dell’avv. Giuseppe Angiuli
Con la sentenza emessa dalla prima sezione civile (26 maggio 2009, n. 12138) il supremo collegio ha preso posizione per la prima volta sulla valenza giuridica da attribuire alla autocertificazione di “operatore qualificato” che i legali rappresentanti di imprese (ed enti pubblici) hanno rilasciato alle banche alla luce dell’art. 13 del vecchio regolamento CONSOB n. 5387 del 1991 e, in seguito alla sua abrogazione, alla luce del successivo art. 31 del regolamento CONSOB attuativo del T.U.F. in materia di intermediari
(deliberazione n. 11522 del 1998).
Dall’inquadramento nella categoria di “operatore qualificato” discendeva per il soggetto intermediario l’innegabile vantaggio di poter evitare di soggiacere agli importanti obblighi di comportamento di cui agli articoli 27, 28, 29, 30, comma 1, del citato regolamento, espressione della c.d. know your customer rule; in particolare, la situazione di negoziare con un “operatore qualificato”, sottraeva le banche agli obblighi dettati dall’art. 28, comma 1, che prevedeva a carico dell’intermediario e prima dell’avvio dell’operazione di investimento l’obbligo di chiedere all’investitore notizie circa la sua esperienza in materia di investimenti e strumenti finanziari, la sua situazione finanziaria, i suoi obiettivi di investimento nonchè circa la sua propensione al rischio, con l’ulteriore obbligo di far constare nel contratto l’eventuale rifiuto del cliente di fornire notizie.
Un’applicazione alquanto “disinvolta” (absit iniuria verbis) della citata disposizione ex art. 31, da parte delle banche, ha concretamente prodotto nella realtà applicativa la seguente paradossale situazione: molti imprenditori (ma anche dirigenti comunali o di altri enti locali territoriali) hanno firmato con leggerezza una dichiarazione loro predisposta su un modulo dalla banca autocertificando la propria competenza in tema di strumenti finanziari e così esonerando la stessa banca dal fornire loro quelle informazioni essenziali sulle caratteristiche e sulla rischiosità degli strumenti finanziari negoziati.
E’ bene ricordare che, a partire dal 2 novembre 2007, con l’ingresso in vigore della nuova normativa di fonte secondaria in materia di intermediari (di cui al regolamento CONSOB n. 16190 del 29 ottobre 2007), la contestata norma sul potere dei clienti di “autocertificare” la propria patente di competenza in materia finanziaria è scomparsa mentre il recepimento della direttiva MIFID ha finalmente introdotto nel nostro ordinamento dei parametri oggettivi perché un’impresa possa essere qualificata al pari di un “operatore qualificato”.
Tuttavia, una buona parte del contenzioso attualmente pendente tra banche e clienti in materia di intermediazione finanziaria rinviene da contratti-quadro stipulati quasi sempre prima dell’autunno del 2007 e pertanto la pronuncia in rassegna resa dai giudici ermellini non può non costituire un decisivo metro di orientamento per i Tribunali di merito e per i collegi arbitrali oggi chiamati a dirimere le controversie nella materia de qua.
In sostanza, con la sentenza n. 12138 del 2009, la Corte di Cassazione ha posto i seguenti punti fermi:
1. la dichiarazione firmata dal legale rappresentante della società che attesti la sussistenza di una certa competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari non può essere fatta assurgere al rango di confessione stragiudiziale in quanto essa non consiste in una dichiarazione di scienza e verità circa un fatto obiettivo (1);
2. pur tuttavia, detta dichiarazione esonera comunque l’intermediario dal porre in essere ulteriori verifiche sul punto dell’esistenza di una effettiva competenza ed esperienza in capo al cliente, a meno che dalla documentazione già in possesso dell’intermediario non sia di per sé desumibile una discrepanza tra contenuto della dichiarazione e realtà effettiva;
3. è facoltà del giudice, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., dedurre argomenti di prova dalla sottoscrizione della dichiarazione in discorso, ferma restando la facoltà del cliente di allegare e provare specifiche circostanze volte a contrastare la veridicità del contenuto della prefata dichiarazione.
Quindi, secondo la Corte nomofilattica, va posto a carico dell’imprenditore che agisce contro la banca – “al fine di escludere la sussistenza in concreto della propria competenza ed esperienza in materia di valori mobiliari” – il preciso onere di provare in giudizio la non veridicità di una dichiarazione da lui stesso rilasciata alla banca, solitamente all’atto della firma del cd. “contratto-quadro”.
L’intervento della Suprema Corte appare in evidente contrasto con l’orientamento dominante precedentemente manifestato da diversi Tribunali di merito i quali, negli ultimi anni, avevano più volte sancito il (ben diverso) principio per il quale ciò che conta, a dispetto di quanto il legale rappresentante di una società possa avere o meno dichiarato nella modulistica predispostagli dalla banca, era accertare la effettiva sussistenza, in capo al legale rappresentante della società, di una reale competenza ed esperienza in materia di strumenti finanziari (2). Non è quindi fuori luogo affermare che, dopo la pronuncia della sentenza in rassegna, alla quale diversi Tribunali di merito sembrano negli ultimi tempi essersi adeguati (3), si è fatta più difficile la strada per quelle imprese che hanno avviato contenziosi contro le banche cercando di “smontare” gli effetti perversi della più volte menzionata “autocertificazione”.
1. L’art. 2730 cod. civ. definisce la confessione come “dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte”.
2. Su tutte vd. Tribunale di Milano, Sez. VI Civile – G.U. Dr. C.R. Raineri – 2 aprile 2004, pubbl. in www.ilcaso.it, ove si affermava, a proposito dell’art. 31, reg. CONSOB n. 11522/1998: “Sul punto non può sottacersi l’indubbio limite di una siffatta disposizione normativa nella parte in cui affida ad una dichiarazione autoreferenziale la individuazione di un “operatore qualificato”, soprattutto ove si consideri che da tale qualificazione discendono conseguenze rilevantissime sul piano delle norme di protezione dell’investitore; nondimeno non appare ragionevole ipotizzare che l’accertamento in concreto di un requisito dai così incerti confini (essere la controparte contrattuale “in possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari”) debba essere rimesso alla Banca piuttosto che al prudente apprezzamento del legale rappresentante della società”.
3. Cfr. Tribunale Torino, 31 gennaio 2011 – Pres. Alessandra Aragno – Est. Rossana Zappasodi, pubbl. su www.ilcaso.it.
* * *
Cass., sez. I, 26-05-2009, n. 12138.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con sentenza del 27 gennaio 2000 il Tribunale di Torino respingeva le domande con le quali la Ceramica Ariostea Monocotture s.p.a. aveva convenuto in giudizio l’Istituto Bancario San Paolo di Torino s.p.a., chiedendone la condanna al pagamento, a titolo restitutorio – previo accertamento dell’inesistenza del diritto all’addebito, anche ai sensi dell’art 1460 c.c. – e/o risarcitorio, della somma di L. 3.484.222.500, comprensiva dei diritti di commissione, oltre a maggior danno e a interessi legali, pari alle perdite complessivamente subite a seguito al compimento in data (OMISSIS), tramite detta banca, di un’operazione di swap di 30 milioni di marchi tedeschi con scadenza al 10 dicembre 1992. 2. Avverso tale sentenza proponeva appello la s.p.a. Ariostea (già Ceramica Ariostea Monocottura s.p.a.) nei confronti dell’Istituto Bancario San Paolo di Torino – Istituto Mobiliare Italiano s.p.a.
(già Istituto Bancario San Paolo di Torino s.p.a.), deducendo:
2.a. l’inopponibilità nei suoi confronti del contratto di questione, in quanto estraneo all’oggetto sociale, pienamente conosciuto e comunque agevolmente conoscibile dalla banca;
2.b. la violazione della L. n 1 del 1991, artt. 6 e 9, art. 1710 c.c. e segg. e art. 2697 c.c., art. 3 preleggi e art. 11 e segg. del Regolamento Consob 2 luglio 1991, n. 5387, per avere il Tribunale erroneamente giudicato legittimo e applicabile l’art. 13 del menzionato Regolamento Consob ed avere comunque ritenuto che la società attrice e appellante fosse un operatore qualificato, conseguentemente escluso dall’ambito di applicazione delle regole di salvaguardia, che, se applicate, avrebbero invece impedito il perfezionamento dell’operazione finanziaria in precedenza indicata, poi risultata disastrosa;
2.c. la mancata considerazione, da parte del primo giudice, sia della totale irragionevolezza e sconvenienza dell’operazione di swap posta in essere, secondo una situazione di fatto perfettamente conosciuta dalla banca, trovatasi ad agire in conflitto di interessi ed in piena violazione della L. n. 1 del 1991, art. 6, sia delle dimensioni eccessive dell’operazione in rapporto alla situazione finanziaria della società, di cui la banca conosceva la scarsità delle risorse, sì da avere il dovere di astenersi dal compiere l’operazione.
3. Con sentenza n. 174/2003 del 18 febbraio 2003, la Corte di appello di Torino respingeva l’appello, così motivando:
3.a. doveva escludersi l’estraneità all’oggetto sociale della Ariostea dell’operazione di swap posta in essere; in particolare, sulla base delle circostanze del caso concreto, non poteva ritenersi che detta operazione non fosse neppure potenzialmente diretta a realizzare l’oggetto sociale dell’Ariostea, in quanto priva di qualsiasi legame, anche mediato e indiretto, con detto oggetto, tenuto conto che si era trattata di un’operazione unica, anche se di rilevante importo, di certo stipulata nell’interesse della società e non di terzi ed in relazione ad una valuta (marco tedesco), solitamente utilizzata dalla società nello svolgimento dei cospicui rapporti commerciali intrattenuti con imprese della (OMISSIS);
doveva inoltre considerarsi che, all’epoca dei fatti, il marco tedesco costituiva notoriamente la moneta più forte nell’area europea e che un esito diverso del contratto in questione avrebbe portato nelle casse dell’Ariostea una somma ingente, utilissima per ammodernare gli impianti, migliorare la produzione ed aumentare il conseguente giro d’affari, mentre aveva costituito un evento del tutto straordinario, nel settembre 1992, l’uscita della L. italiana dallo SME, che aveva portato detta valuta a subire un notevole deprezzamento di valore rispetto al marco;
3.b. andava anche esclusa, sulla base della documentazione versata in atti, la mala fede della banca, che non solo non si trovava nelle condizioni di formulare alcun giudizio di estraneità dell’operazione all’oggetto sociale dell’Ariostea, ma aveva semmai tutte le migliori ragioni per essere convinta del contrario, in quanto la società appellante, soggetto di non secondaria importanza economica nella produzione e vendita di materiale ceramico, intratteneva cospicui rapporti con il mercato estero ed aveva dichiarato di avere in corso o di dover stipulare futuri contratti con soggetti non residenti, destinati a generare crediti in valuta estera, per i quali si rendeva necessario cautelarsi contro i rischi di cambio, così enunciando la stessa appellante quel collegamento tra l’operazione di swap posta in essere e la propria attività d’impresa; doveva inoltre considerarsi che il volume di affari dell’Ariostea con la (OMISSIS) e l’entità della sua posizione creditoria verso la clientela (OMISSIS) costituivano dati interni alla società, che tra l’altro operava con una pluralità di istituzioni creditizie, e in nessun modo comunicati alla banca, nè da questa acquisibili;
3.c. l’art. 13 del regolamento Consob 1991/5387, che introduceva la figura dell’operatore qualificato escluso dall’ambito di applicazione delle regole di salvaguardia, doveva considerarsi pienamente legittimo, contenendo una disposizione praeter legem e non contra legem ed essendosi limitato a disciplinare gli spazi vuoti lasciati dalla legge, in quanto demandati alla normativa regolamentare; nello stesso tempo prive di fondamento erano le censure dell’appellante sulla propria qualificazione come operatore qualificato; infatti la società Ariostea, dopo l’entrata in vigore della L. n. 1 del 1991, mediante atto scritto aveva conferito mandato all’Istituto Bancario San Paolo per la negoziazione di valori mobiliari, dichiarando di essere un operatore qualificato ai sensi dell’art. 13 del menzionato regolamento Consob e rientrante pertanto tra le società o persone giuridiche in possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in valori mobiliari; tale dichiarazione aveva carattere impegnativo per il soggetto dichiarante e su di essa la legge non prevedeva controlli in via preventiva o successiva, permettendo l’esercizio dell’opzione senza alcun condizionamento, con la conseguenza che, attribuitasi la qualità di operatore qualificato esperto in materia di operazioni su valori mobiliari, la società non poteva tornare sui suoi passi e, intuito il possibile esito negativo del contratto concluso, invocare a proprio favore l’applicazione delle disposizioni elencate nell’art. 13, comma 1, del regolamento Consob 1991/5387;
3.d. inoltre l’Ariostea, per il peso economico – commerciale rivestito sia sul mercato nazionale, che su quello internazionale, per il volume di affari registrato, per le persone ed i mezzi di cui disponeva, doveva essere considerata un operatore economico qualificato, in quanto tale edotto dei meccanismi di funzionamento delle operazioni in campo finanziario e quindi consapevole dei rischi a cui operazioni come quella conclusa potevano esporre;
3.e. erano sostanzialmente irrilevanti tutte le censure inerenti alle concrete modalità di effettuazione dell’operazione di swap, a causa dell’inapplicabilità all’Ariostea, quale operatore qualificato, delle norme di protezione di cui alle disposizioni della L. n. 1 del 1991, art. 6 e del citato regolamento Consob, dovendosi comunque escludere la mala fede della banca nel dare corso all’operazione in questione, anche perchè la fideiussione e la garanzia pignoratizia prestate dalla società alla banca medesima erano antecedenti di circa un mese alla data di stipulazione del contratto di swap contestato e non si rinvenivano in atti da parte della banca richieste di garanzie quali condizioni indispensabili per concludere l’operazione di swap. 4. Per la cassazione di tale sentenza ricorre la s.p.a. Ariostea sulla base di tre motivi.
Resiste con controricorso e memoria Intesa Sanpaolo s.p.a., quale incorporante di Sanpaolo Imi s.p.a..
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo la ricorrente – denunciando violazione o falsa applicazione della L. n. 1 del 1991, art. 6, lett. A), D), E), F), e art. 9, dell’art. 1710 c.c. e segg., dell’art. 13 del regolamento Consob 1991/5387, dell’art. 3 preleggi, comma 2, e art. 4 preleggi, comma 1, nonchè omessa pronuncia e insufficiente motivazione – censura la sentenza impugnata per non avere i giudici di appello dichiarato illegittimo l’art. 13 del regolamento Consob 1991/5387, il quale, nell’istituire la categoria degli operatori qualificati e nell’escludere l’applicazione nei loro confronti delle norme di protezione fissate dalla L. n. 1 del 1991, art. 6, così introducendo arbitrariamente una specificazione non contemplata dalla Legge Delega, avrebbe violato il disposto dell’art. 3 disp. gen., comma 2, e dell’art. 4 disp. gen., comma 1. In particolare, quanto al citato art. 3 disp. gen., comma 2, sarebbe stato superato il limite indicato dalla L. n. 1 del 1991, art. 9, consistente nel rispetto dei principi enunciati dalla L. n. 1 del 1991, art. 6, senza la previsione di alcuna deroga di operatività in ragione della particolare natura del soggetto cliente. Invece, con riferimento all’art. 4 disp. gen., comma 1, sarebbe stata introdotta una disposizione contraria alla L. n. 1 del 1991, artt. 1 e 6, con la previsione di un limite di operatività delle norme primarie alle sole controparti di un intermediario autorizzato, che non siano operatori qualificati, senza tener conto che le regole di comportamento previste dalla L. n. 1 del 1991, art. 6 hanno carattere inderogabile, fissando canoni di condotta volti a garantire l’integrità del mercato.
1.1. Il motivo è privo di fondamento.
Giova rilevare che la fattispecie è regolata, ratione temporis, dalla L. n. 1 del 1991, art. 9 – che ha demandato alla Consob, d’intesa con la Banca d’Italia il compito di determinare “le regole di comportamento che le società di intermediazione mobiliare devono osservare nello svolgimento delle attività per le quali sono autorizzate…” – e dall’art. 13 del regolamento Consob 2 luglio 1991, n. 5387, che, in attuazione della delega conferita dalla citata L. n. 1 del 1991, art. 9, ha disposto che agli operatori qualificati non si applicano determinate norme di salvaguardia ed ha qualificato come operatori qualificati, tra gli altri, “ogni società o persona giuridica in possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in valori mobiliari espressamente dichiarata per iscritto nel contratto di cui all’art. 9”.
Il quadro giuridico di riferimento è stato successivamente innovato dalla direttiva 93/22/CEE del 10 maggio 1993, relativa ai servizi di investimento nel settore dei valori mobiliari, la quale, nel far riferimento all’opportunità di tener conto delle varie esigenze e nel prendere in considerazione possibili diverse categorie di investitori con esigenze di tutela differenziate, riconosce al legislatore nazionale una certo margine di discrezionalità circa i parametri da utilizzare per la individuazione delle categorie per le quali attuare forme di tutela differenziata.
La menzionata direttiva è stata recepita dal D.Lgs. n. 58 del 1998, che, all’art. 6 ha previsto che la vigilanza regolamentare sia svolta dalla Consob, sentita la Banca d’Italia, “tenuto conto delle differenti esigenze di tutela degli investitori connesse con la qualità e l’esperienza professionale dei medesimi”, dovendosi così ritenere che la normativa primaria introdotta dal D.Lgs. n. 58 del 1998 riconosce la necessità di graduare la tutela giuridica offerta alla clientela degli intermediari finanziari.
In applicazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, il successivo regolamento Consob 11522/1998 ha previsto all’art. 31, in favore dei cosiddetti operatori qualificati, un’ampia deroga alla normativa generale in ordine alla tutela del cliente, espressamente ricomprendendo tra gli operatori qualificati – con disposizione che è stata anche successivamente reiterata – “ogni società o persona giuridica in possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari espressamente dichiarata per iscritto dal legale rappresentante”. 1.2. Le stesse esigenze di tutela differenziata degli investitori erano però presenti in precedenza, pur in mancanza di espresse previsioni nella normativa primaria, nel sistema di tutela delineato dalla L. n. 1 del 1991. Invero, l’opportunità di non estendere a tutti i clienti la normativa a tutela dell’investitore risponde all’esigenza di contemperare la protezione del cliente medesimo con le ragioni di celerità e di flessibilità dei rapporti contrattuali nel peculiare settore degli investimenti mobiliari, in quanto riservare ad un cliente particolarmente esperto l’identico trattamento previsto per un cliente ordinario, privo di specifiche conoscenze ed esperienza nel settore, conduce all’inutile applicazione di norme di salvaguardia, che si traducono in un rallentamento delle operazioni contrattuali e in un incremento dei costi, senza alcun concreto vantaggio per il cliente che sia già in grado di conoscere e valutare le caratteristiche e i rischi specifici dell’operazione. Alla luce di tali principi vanno interpretate “le regole di comportamento” che la L. n. 1 del 1991 ha demandato alla Consob di determinare per lo svolgimento da parte delle società di intermediazione mobiliare delle attività alle quali sono state autorizzate. Legittimamente, pertanto, la Consob, anche in mancanza di un espressa previsione contenuta nella normativa primaria – successivamente introdotta, come già precisato – ma recependo le regole di flessibilità operativa richiesta dal mercato dell’intermediazione mobiliare e tenendo conto della mancanza di necessità di approntare una specifica e pregnante tutela per i servizi offerti a clienti già particolarmente esperti, ha consentito la disapplicazione di alcune norme di salvaguardia nei confronti di tali clienti, in attuazione della delega ricevuta dalla norma di riferimento, che ha inteso attribuire alla Consob, nell’ambito delle sue discrezionali valutazioni, un potere di salvaguardia con riferimento a situazioni in cui erano da ravvisare effettive esigenze di tutela sostanziale di operatori sprovvisti dei requisiti di conoscenza e di esperienza adeguati al livello di rischiosità delle operazioni poste in essere.
Come esattamente rilevato dalla Corte d’appello, con l’art. 13 del regolamento 1991/5387, la Consob, disciplinando – nell’esercizio del potere, attribuitole dalla legge, di determinare le regole di comportamento delle società di intermediazione mobiliare – fattispecie non direttamente prese in considerazione dalla norma primaria di riferimento, ha delineato una disciplina che non si pone contra legem, ma si configura praeter legem, così provvedendo a colmare quegli spazi lasciati vuoti dalla legge, proprio perchè demandati alla normativa regolamentare.
In tal modo la Consob ha esercitato la potestà regolamentare propria delle autorità amministrative indipendenti, che non mira soltanto a precisare in dettagli tecnici il contenuto di regole di comportamento fissate in linea generale dalla legge, ma è funzionale ad un esigenza di ampia regolamentazione di settori operativi, da svolgersi nel quadro dei principi generali stabiliti dalla normativa primaria, ma con larghi margini di scelta discrezionale, così da poter disciplinare autonomamente materie aventi dignità legislativa ma non trattate dalla legge e realizzare, in tal modo, una funzione integratrice delle fonti primarie.
2. Con il secondo motivo la società Ariostea denuncia, in via subordinata, la violazione e falsa applicazione dell’art. 13 del regolamento Consob 1991/5387 e della L. n. 1 del 1991, art. 6, lett. A), D), E), F), nonchè vizio di omessa pronuncia, censurando la sentenza impugnata in quanto i giudici di appello, dopo aver ritenuto legittimo l’art. 13 del regolamento Consob citato, avrebbero errato nel attribuire alla società medesima natura di operatore qualificato, in conseguenza della semplice sottoscrizione di un documento predisposto dalla banca, senza indagare nel merito se la società fosse effettivamente in possesso di una specifica competenza ed esperienza nella materia dell’intermediazione mobiliare. In particolare la ricorrente deduce che:
2.1. per l’applicazione del richiamato art. 13 è necessario che la persona giuridica sia in possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in valori mobiliari e che tale situazione venga dichiarata, in quanto non è la semplice dichiarazione che attribuisce natura costitutiva dello status di operatore qualificato, bensì la compresenza dei requisiti sostanziali insieme con la dichiarazione medesima;
2.2. la Corte di merito non ha affrontato il diverso, ma connesso, problema dei limiti di opponibilità alla banca di una situazione reale diversa da quella dichiarata, laddove la divergenza sia conosciuta o conoscibile dall’istituto; in realtà i giudici di appello avrebbero dovuto accertare se l’Ariostea fosse effettivamente o meno un operatore qualificato, esaminando la specifica censura sollevata nell’atto di appello alla soluzione affermativa a cui, erroneamente, era pervenuto il primo giudice; invece la Corte di merito ha omesso di verificare se la divergenza tra la situazione reale e quella dichiarata esistesse e fosse nota alla banca, circostanza che, se accertata, avrebbe finito per attribuire alla dichiarazione contenuta nel modulo fatto sottoscrivere alla società il valore di una mera clausola di stile;
2.3. nel caso di specie, l’Ariostea non era un operatore abituale, e neppure occasionale, del mercato dei valori mobiliari e perciò non poteva avere competenza ed esperienza in materia, mentre la ratio dell’art. 13, se legittimo e applicabile al caso di specie, era quella di escludere dall’ambito di protezione stabilito dalla L. n. 1 del 1991, art. 6 soltanto i soggetti che si occupassero con professionalità del mercato dei valori mobiliari e che fossero perciò in possesso di competenza ed esperienza specifiche, intendendosi per professionalità un’organizzazione mirata allo scopo, nella specie del tutto inesistente come ben noto alla banca che da anni intratteneva rapporti con la società, della quale conosceva l’effettiva attività e l’organizzazione aziendale, nonchè i relativi prodotti ed i mercati di riferimento;
2.4. il documento datato 12 aprile 1992, predisposto dalla banca e sottoposto alla firma dell’Ariostea, era del tutto generico e inidoneo allo scopo e la Corte di merito ha finito per legittimare l’utilizzo da parte della banca di un modulo prestampato, quale mezzo preordinato alla disapplicazione della norma primaria e quindi volto alla realizzazione di un’ingiustificata e invalida limitazione di responsabilità dell’intermediario, in contrasto con i principi fissati dalla legge delega.
3. Anche tale motivo è privo di fondamento, ma la motivazione in diritto della sentenza impugnata, sul punto concernente la rilevanza e l’efficacia della dichiarazione relativa al possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in valori mobiliari, deve essere corretta nei termini qui di seguito precisati.
L’art. 13 del regolamento Consob 1991/5387 ha definito come operatore qualificato, tra gli altri soggetti e per quel che rileva nel presente giudizio, anche “ogni società o persona giuridica in possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in valori mobiliari espressamente dichiarata per iscritto” nel contratto previsto dal precedente art. 9 del medesimo regolamento. Quindi, in base alla citata disposizione regolamentare, la natura di operatore qualificato discende dalla contemporanea presenza di due requisiti: uno di natura sostanziale, vale a dire l’esistenza della specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in valori mobiliari in capo al soggetto (società o persona giuridica) che intenda concludere un contratto avente ad oggetto operazioni su detti valori; l’altro, di carattere formale, costituito dalla espressa dichiarazione di possedere la competenza ed esperienza richieste, sottoscritta dal soggetto medesimo.
Appare al riguardo evidente la ratio della norma in esame, volta a richiamare l’attenzione del cliente circa l’importanza della dichiarazione ed a svincolare l’intermediario dall’obbligo generalizzato di compiere uno specifico accertamento di fatto sul punto, tenuto anche conto che nella disposizione in esame non si rinviene alcun riferimento alla rispondenza tra il contenuto della dichiarazione e la situazione di fatto effettiva e non è previsto a carico dell’intermediario alcun onere di riscontro della veridicità della dichiarazione, riconducendo invece alla responsabilità di chi amministra e rappresenta la società dichiarante gli effetti di tale dichiarazione.
3.1. Tali considerazioni inducono a ritenere che, in mancanza di elementi contrari emergenti dalla documentazione già in possesso dell’intermediario in valori mobiliari, la semplice dichiarazione, sottoscritta dal legale rappresentante, che la società disponga della competenza ed esperienza richieste in materia di operazioni in valori mobiliari – pur non costituendo dichiarazione confessoria, in quanto volta alla formulazione di un giudizio e non all’affermazione di scienza e verità di un fatto obiettivo (art. 2730 c.c.; Cass. 1973/1662; 1981/5025; 2002/16127; 2006/13212) – esoneri l’intermediario stesso dall’obbligo ulteriori verifiche sul punto e, in carenza di contrarie allegazioni specificamente dedotte e dimostrate dalla parte interessata, possa costituire argomento di prova che il giudice – nell’esercizio del suo discrezionale potere di valutazione del materiale probatorio a propria disposizione ed apprezzando il complessivo comportamento extraprocessuale e processuale delle parti (art. 116 c.p.c.) – può porre a base della propria decisione, anche come unica e sufficiente fonte di prova in difetto di ulteriori riscontri, per quanto riguarda la sussistenza in capo al soggetto che richieda di compiere operazioni nel settore dei in valori mobiliari dei presupposti per il riconoscimento della sua natura di operatore qualificato ed anche ai fini dell’accertamento della diligenza prestata dall’intermediario con riferimento a tale specifica questione, ai sensi della L. n1 del 1991, art. 13, comma 10, (cfr. Cass. 1998/5784; 2000/4085; 2002/10268; 2003/15172; 2005/4651).
Nel caso di asserita discordanza tra il contenuto della dichiarazione e la situazione reale da tale dichiarazione rappresentata, graverà su chi detta discordanza intenda dedurre, al fine di escludere la sussistenza in concreto della propria competenza ed esperienza in materia di valori mobiliari, l’onere di provare circostanze specifiche dalle quali desumere la mancanza di detti requisiti e la conoscenza da parte dell’intermediario mobiliare delle circostanze medesime, o almeno la loro agevole conoscibilità in base ad elementi obiettivi di riscontro, già nella disponibilità dell’intermediario stesso o a lui risultanti dalla documentazione prodotta dal cliente.
3.2. Nel caso di specie, dalla sentenza impugnata si evince che la società attrice, a fronte della propria dichiarazione di essere un operatore qualificato ai sensi dell’art. 13 del regolamento Consob 1991/5387, non ha fornito alcun idoneo elemento di prova in ordine all’esistenza di circostanze che consentissero di escludere tale sua qualità, o comunque la propria competenza ed esperienza nel campo delle operazioni in valori mobiliari, ed alla conoscenza o conoscibilità di tali circostanze da parte della banca intermediaria. Al contrario, la Corte di appello di Torino, con idonea e logica motivazione che resiste alle censure sollevate dalla ricorrente, ha accertato che la società Ariostea – per il peso economico – commerciale rivestito sia sul mercato nazionale, che su quello internazionale (in relazione al quale, per il compimento di operazioni in valuta straniera, era necessario adottare cautele contro i rischi di cambio), per il volume di affari registrato, per le persone ed i mezzi di cui disponeva – doveva ritenersi a conoscenza delle regole che disciplinano il mercato dei valori mobiliari e consapevole dei rischi a cui operazioni come quella conclusa potevano esporre, così da poter essere considerata un operatore economico qualificato, ai sensi dell’art. 13 del regolamento Consob 1991/5387 e ai fini da tale disposizione perseguiti.
4. Con il terzo motivo la società Ariostea – denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 2384 bis, 2697 ed 2909 c.c., nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione – deduce in via alternativa che la sentenza di appello è illegittima nel capo in cui ha escluso la estraneità all’oggetto della società dell’operazione di swap posta in essere e la mala fede della banca intermediaria.
In particolare con la complessiva censura si afferma che:
4.1. la società Ariostea svolge come attività specifica ed esclusiva la produzione e commercializzazione di piastrelle ceramiche e, poichè il Tribunale ha accertato con pronuncia passata in giudicato la natura puramente speculativa del contratto di swap, l’indagine della Corte di appello non poteva che portare a riconoscere l’estraneità del contratto all’oggetto sociale;
4.2. quanto alla mala fede della banca, sono stati acquisiti agli atti inequivoci documenti atti a comprovare la conoscenza da parte dell’istituto di credito della situazione patrimoniale, finanziaria e valutaria dell’Ariostea, che avrebbe comunque potuto essere oggetto di richiesta di informazioni; in particolare, la banca era certamente a conoscenza della reale situazione finanziaria e valutaria di Ariostea e sapeva che la società era indebitata in marchi tedeschi con mutui e leasing in tale valuta e che, per prassi costante, si faceva anticipare dalle banche i crediti in valuta, con la conseguenza che non esistevano crediti non anticipati; in particolare l’istituto bancario era a conoscenza che l’operazione di swap del (OMISSIS) per 30 milioni di marchi aveva natura meramente speculativa, estranea all’oggetto sociale.
5. Anche tale censura è priva di fondamento.
La Corte di appello, ancora una volta con congrua motivazione, immune da vizi logici, ha escluso l’estraneità all’oggetto sociale dell’Ariostea dell’operazione di swap posta in essere dall’attrice, anche con riferimento agli aspetti più strettamente speculativi dell’operazione medesima, sulla base delle considerazioni dettagliatamente già esposte al precedente punto 3.a. della narrativa della presente sentenza.
La ricorrente, lungi dal configurare specifici vizi della motivazione, si limita a contrapporre all’apprezzamento delle risultanze processuali compiuto dai giudici di appello una propria e diversa valutazione delle stesse risultanze, così mirando inammissibilmente al riesame, in sede di giudizio di legittimità, dell’accertamento di fatto compiuto dal giudice del merito e delle conclusioni da lui raggiunte (Cass. 2000/5806; 2003/17651;
2004/15675; 2007/16955).
Assume rilievo a tale riguardo il principio, già più volte affermato da questa Corte, secondo cui i vizi della sentenza posti a base del ricorso per Cassazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito, o consistere in censure che investano la ricostruzione della fattispecie concreta, o che siano attinenti al difforme apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte (Cass. 2007/7972; 2007/13954).
6. Le considerazioni che precedono conducono al rigetto del ricorso.
La parziale correzione della motivazione in diritto della sentenza impugnata giustifica la compensazione per la metà delle spese del giudizio di cassazione, che per la restante metà, da liquidarsi come in dispositivo, vanno poste a carico della ricorrente secondo il principio della soccombenza.
P.Q.M.
LA CORTE Rigetta il ricorso. Compensa per la metà le spese del giudizio di cassazione e condanna la ricorrente al pagamento della restante metà, che liquida in Euro 7.700,00, di cui Euro 7.500,00 per onorari, oltre a spese generali e accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 24 febbraio 2009.
Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2009
26 Maggio 2009 Nessun commento
DECRETO-LEGGE 25 giugno 2008 , n. 112
Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitivita’, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione Tributaria.
6 Agosto 2008 Commenti disabilitati su DECRETO-LEGGE 25 giugno 2008 , n. 112