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LA COMMISSIONE IMPLICITA IN UNO SWAP E’ UN INDEBITO RIPETIBILE: IL TRIBUNALE DI PESCARA DA’ RAGIONE AL COMUNE DI PENNE

Commento a cura dell’avv. Giuseppe Angiuli

La novità giurisprudenziale apportata dalla pronuncia in commento (Tribunale di Pescara, sentenza 3 ottobre 2012, n. 1241, pubblicata su www.ilcaso.it, I, 7967, 22/10/2012) risiede nel fatto che un Comune è qui riuscito a ripetere delle somme dalla banca senza che la Giustizia abbia dovuto preventivamente dichiarare nullo o risolto il contratto derivato.

Come è avvenuto per molti altri enti locali del nostro Paese, anche il Comune di Penne aveva stipulato nel 2002 un contratto del tipo interest rate swap a garanzia del rischio di rialzo dei tassi d’interesse variabili in relazione ad una operazione di finanziamento. [Continua a leggere →]

Tra il 2002 e il 2004, analogamente a tante altre situazioni di questo tipo, l’ente si era poi visto progressivamente sostituire, per tre volte di seguito, il prodotto IRS con un altro della stessa specie.

E come per altri casi, al momento di ogni sostituzione del vecchio swap con quello nuovo, la banca aveva apparentemente “premiato” la amministrazione locale elargendole un up-front, ossia un premio di liquidità.

Nel 2008 il Comune, dopo avere registrato delle pesanti perdite in relazione all’ultimo derivato stipulato in ordine di tempo, aveva deciso di sospendere unilateralmente il pagamento dei flussi negativi di interessi, trascinando l’istituto intermediario B.N.L. dinanzi al Tribunale civile di Pescara, a cui aveva chiesto pronunciarsi, in via preliminare, la nullità, l’annullamento ovvero la risoluzione dell’unico contratto swap ancora operativo, denominato Purple collar.

In aggiunta a tali domande, l’ente aveva altresì chiesto disporsi la restituzione a suo favore dell’indebito oggettivo maturato ai sensi dell’art. 2033 cod. civ. in relazione ad alcune somme versate in pendenza dei vecchi prodotti swap.

In corso di causa, la Giunta comunale di Penne decideva tatticamente di non insistere più sulla richiesta di invalidazione dell’ultimo derivato concluso in ordine di tempo e di insistere unicamente sulla ripetizione di quanto versato in relazione agli swap precedentemente in essere.

Il Tribunale di Pescara (Presidente dott. Bozza, estensore dott.ssa Ursoleo), dopo avere disposto una c.t.u. contabile, ha accertato la presenza di commissioni occulte applicate dalla banca a due vecchi swap ed ha dunque accolto la sola domanda ripetitoria tra quelle formulate dal Comune, fissando un importante precedente giurisprudenziale.

Ricordiamo come nell’ambito della finanza degli enti territoriali, la rinegoziazione di un derivato, con contestuale erogazione di un up-front, assolve molto spesso a due finalità apparentemente benefiche per l’amministrazione locale: l’incameramento di un premio di liquidità dà provvisoriamente un po’ di respiro alla capacità di spesa corrente e sembra consentire all’amministrazione locale, al tempo stesso, di “fare quadrare i propri conti” in bilancio, spostando il rischio di insolvenza dell’ente in un futuro più o meno prossimo.

In altri termini, accade molto spesso che le amministrazioni locali, dovendo in qualche modo soddisfare l’esigenza di fare cassa, si fanno convincere dalle banche a stipulare (ovvero a rinegoziare) un prodotto derivato, mosse proprio dall’incentivo costituito dall’up-front erogato nella fase iniziale del (nuovo) rapporto.

Quello che però molti amministratori spesso sottovalutano è che l’up-front, in realtà, altro non è che un parziale risarcimento del valore negativo del derivato: ed è proprio dall’analisi di questo aspetto delicato del rapporto che prende spunto la significativa decisione dei giudici pescaresi.

Essi hanno innanzitutto ricordato come la normativa di fonte secondaria (allegato 3 al regolamento CONSOB reso con delibera n. 11522/98, paragrafo 4 della parte B) impone sempre che, al momento della sua stipula, il valore dello swap sia nullo.

Il valore nullo dell’IRS sta a significare che “i contraenti devono concordare sul fatto che la somma algebrica attualizzata dei flussi positivi e negativi e del valore delle opzioni scambiate deve essere pari a zero”.

Alla stregua di tale principio-base, il Tribunale abruzzese ha dunque fornito una chiara definizione del concetto di up-front, affermando quanto appresso: “Ove invece gli swaps fossero ab origine contratti non par, ossia laddove presentassero al momento della stipula un valore di mercato negativo per una delle due controparti, in quanto uno dei due flussi di pagamento non riflette il livello dei tassi di mercato, l’equilibrio finanziario delle condizioni di partenza dovrà essere ristabilito attraverso il pagamento di una somma di danaro da parte del contraente avvantaggiato al contraente svantaggiato e tale pagamento, che dovrebbe essere pari al valore di mercato di negativo del contratto, prende il nome di up-front”.

Nel caso di specie, la c.t.u. ha accertato che almeno due dei vecchi contratti IRS negoziati dal Comune di Penne presentavano un valore negativo di mark to market sin dal momento della loro stipula e che, in entrambi i casi, la banca aveva erogato degli up-front di importo insufficiente a rifondere il Comune di tale valore negativo: tutto ciò aveva finito per far sorgere – secondo i giudici di Pescara – delle commissioni implicite a carico dell’ente pubblico.

Inoltre, la disamina del regolamento contrattuale di entrambi i prodotti IRS ha consentito ai giudici di desumere la natura implicita (e perciò stesso indebita) della commissione in parola dalla semplice constatazione che “i contratti di swap escludevano qualunque importo a titolo di commissioni”.

A detta del Tribunale di Pescara, dunque, se l’importo dell’up-front elargito dalla banca non è tale da coprire il valore iniziale negativo del derivato, un ente pubblico non può farsi carico della commissione implicita incamerata in tal modo dalla banca, posto che una prassi di questo tipo risulterebbe contraria quanto meno ai principi generali regolanti i rapporti tra finanza pubblica e strumenti derivati (in primis, all’art. 41 della legge finanziaria per il 2002).

La stessa circostanza “che la banca abbia corrisposto, per ciascun contratto, l’up-front non in misura integrale, per come sarebbe stato in considerazione del valore negativo di MTM dei contratti per il Comune, caricando sul cliente il pagamento di commissioni non previste, anzi escluse dai contratti de quibus, configura l’ipotesi di pagamenti, da parte del Comune, ab origine indebiti, mancando la causa giustificativa dei pagamenti stessi”.

Una volta delineato nei termini suesposti il concetto di “commissione implicita” a carico del Comune, è risultato quindi semplice calcolare quanto la banca intermediaria dovesse restituire all’ente pubblico, coincidendo tale somma nello scarto tra il valore negativo del mark to market per l’ente e l’importo dell’up-front incassato alla stipula di ciascuno swap.

Nella fattispecie in esame, dunque, la B.N.L. è stata condannata a restituire la complessiva somma di 672 mila euro al Comune abruzzese a titolo di indebito oggettivo ex art. 2033 cod. civ., con l’aggiunta degli interessi legali dalle date in cui avvennero le rispettive negoziazioni degli swap.

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Link al provvedimento:

http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/7967.php

3 Ottobre 2012   Nessun commento

LA CARENZA DI UNA CAUSA CONCRETA RENDE NULLO IL CONTRATTO DI SWAP

Commento a cura dell’avv. Giuseppe Angiuli

Avevamo già segnalato l’ordinanza cautelare dell’ottobre 2011 con cui il Tribunale monocratico di Orvieto, in applicazione dell’art. 700 c.p.c., aveva ordinato in corso di causa ad un istituto bancario di sospendere in via d’urgenza l’addebito di differenziali negativi connessi ad operazioni del tipo interest rate swap stipulate dal Comune della stessa cittadina umbra (qui il link al provvedimento). [Continua a leggere →]

Più recentemente, sempre il Tribunale di Orvieto (con provvedimento depositato il 12 aprile 2012, Presidente e relatrice la dott.ssa Maria Pia Di Stefano, pubblicato su www.ilcaso.it), nell’ambito della stessa vicenda giudiziaria ma questa volta adìto in sede collegiale per il reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c. presentato dalla banca, ha confermato l’ordinanza impugnata, non mancando l’occasione per analizzare ancora più nel profondo la situazione in cui è finito per trovarsi l’ente territoriale a causa della stipula di ben sette swap e fissando alcuni importanti princìpi di indubbio rilievo giurisprudenziale.

Il percorso logico-argomentativo seguito dal Tribunale umbro muove da una preliminare definizione concettuale delle operazioni interest rate swap, descritte come contratti che prevedono “lo scambio a termine di flussi di cassa calcolati con modalità prestabilite, secondo un sistema che permette di diminuire il rischio connesso alla fluttuazione dei tassi di interesse ed in cui i reciproci pagamenti previsti sono ancorati a tassi di interesse differenti e predefiniti, applicati ad un capitale nozionale di riferimento”.

Il punto centrale della riflessione offerta dai giudici orvietani attiene all’analisi dello schema genetico che in un negozio di swap deve necessariamente contraddistinguere il predetto scambio di flussi di cassa tra i due soggetti contraenti.

Perché sia garantito un sano equilibrio tra le posizioni dei due contraenti, è stato ritenuto indispensabile che lo scambio di flussi legato al differenziale tra i due rispettivi tassi di interesse, al momento della stipula dell’operazione, sia pari a zero, “altrimenti il contratto partirà squilibrato a favore di uno dei due contraenti, evidenziando una possibile patologia della fattispecie negoziale”.

In sostanza, il Tribunale di Orvieto ha censurato quel comportamento degli istituti bancari, largamente diffuso nella prassi, consistente nell’occultare una situazione di mark to market negativo per il cliente già al momento della stipula dello swap.

La riflessione del Tribunale di Orvieto è tanto semplice quanto logica: non può avere senso per un cliente (e men che meno per un ente pubblico) l’acquisto di un prodotto swap che presenti, già al momento della sua sottoscrizione, un flusso di cassa negativo in quanto, in tali casi, ciò che viene a mancare è la stessa causa concreta del contratto di swap, ossia lo “scopo pratico del negozio”. Tale carenza di causa concreta – ove riscontrata – inficia la validità genetica del contratto, alla luce del principio generale di cui all’art. 1418, secondo comma, cod. civ.

Peraltro, il ragionamento generale sopra sviluppato non impedisce al nostro ordinamento di consentire l’ingresso a figure di strumenti derivati caratterizzati da un iniziale squilibrio di prestazioni tra le parti: è il caso dei derivati cosiddetti non par che, come pure precisato dalla Consob in sede di audizione parlamentare, “presentano al momento della stipula un valore di mercato negativo per una delle controparti, poiché uno dei due flussi di pagamento non riflette il livello dei tassi di mercato(1).

Il Tribunale di Orvieto ha tuttavia ricordato che quest’ultima tipologia di derivati, per ottenere un crisma di legittimità dall’ordinamento, necessita di un indispensabile correttivo iniziale: l’erogazione di un up front (ossia di una somma di denaro) a favore del cliente, in misura tale da compensare integralmente la situazione di squilibrio finanziario tra le parti. In altre parole, perché un contratto derivato non par  sia legittimo, occorre che l’up front  sia dello stesso ammontare del valore di mercato negativo del contratto.

Nel caso oggetto di commento, i giudici hanno verificato che tutte le operazioni sottoscritte dal Comune di Orvieto presentavano, al momento della loro stipula, un differenziale iniziale negativo per l’ente pubblico e che gli up front, ancorchè erogati in qualche caso dalla banca, non erano di entità tale da riequilibrare il valore negativo del mark to market.

Per di più, nei casi di prodotti swap  sottoscritti dal Comune con la finalità di rinegoziare precedenti derivati che già avevano prodotto dei flussi di cassa negativi per l’ente, il Tribunale ha rimarcato l’estraneità di tali operazioni rispetto alle finalità istituzionali generalmente perseguibili da una pubblica amministrazione locale che – lo ricordiamo – è ammessa dalla legge ad impegnarsi in operazioni di strumenti derivati soltanto a fini conservativi (art. 41, legge 448/2001; art. 3, d.m. 389/2003).

Su quest’ultimo punto, la presa di posizione del Tribunale di Orvieto è quasi sorprendente per la sua perentorietà ed originalità: a detta dei giudici umbri, l’attività di rinegoziazione di uno swapcostituisce di per sé una deviazione dalla normale operatività in derivati che un ente pubblico può compiere in ossequio alle esigenze di copertura del debito”. Dunque, secondo tale prospettazione, non può essere consentito ad un Comune, al fine di scongiurare l’imminente addebito di differenziali negativi, di ristrutturare il derivato accettando nell’immediato di incamerare liquidità ma al contempo accollandosi un nuovo derivato dal valore già negativo, spostando solo più in là nel tempo il rischio di andare incontro a flussi di cassa negativi. Tutto ciò non rientrerebbe nelle finalità conservative connesse all’attività finanziaria di un ente pubblico ma sfocerebbe, nella sostanza, in un’operazione negoziale non già di copertura bensì dal significato intrinsecamente aleatorio.

Ove tale ultima tesi dovesse trovare ulteriore credito da parte della giurisprudenza di merito, gli effetti che ne deriverebbero sui rapporti tra banche ed enti pubblici potrebbero rivelarsi travolgenti: infatti, l’ordinanza in rassegna finisce per delineare le ristrutturazioni di derivati aventi valore negativo (prassi molto diffusa) come operazioni intrinsecamente speculative e perciò stesso vietate alle pubbliche amministrazioni.

Ma la ricca ed articolata ordinanza in commento offre altresì una interessante interpretazione sulla validità della nota e controversa “autocertificazioneex art. 31, reg. CONSOB n. 11522/98, alla stregua del celebre arret della Corte di Cassazione (sentenza n. 12138 del 2009, già commentata su DERIVATI.INFO: link).

Il soggetto intermediario – secondo il Tribunale di Orvieto – non può mai essere esonerato dal compiere quella necessaria attività di trasferimento verso il cliente del suo bagaglio di informazioni e conoscenze tecniche riguardanti lo specifico strumento finanziario che si intende negoziare ed è inoltre sempre tenuto (soprattutto quando si tratta di strumenti finanziari altamente complessi) a rendere edotto il cliente circa il reale significato della dichiarazione ex art. 31. Soltanto dopo avere adempiuto a tali preliminari doveri informativi la banca potrà quindi prendere per buona la dichiarazione di un cliente che attesti di avere sufficiente esperienza e conoscenza in strumenti finanziari e soltanto in tale contesto, infine, la stessa banca potrà sentirsi esonerata dal compiere ulteriori verifiche sulla rispondenza a veridicità della dichiarazione rilasciata dal cliente.

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Link al provvedimento:

http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/7314.php

 


(1) Audizione della Consob alla VI^ Commissione Finanze e Tesoro del Senato, 18 marzo 2009.

30 Giugno 2012   Nessun commento

IL COMUNE DI ORVIETO OTTIENE LA SOSPENSIONE D’URGENZA DELLE OPERAZIONI IN DERIVATI: UNA CAUSA-PILOTA PER MOLTI ENTI PUBBLICI ITALIANI?


Commento a cura dell’avv. Giuseppe Angiuli

La vicenda in discorso potrà verosimilmente costituire un importante esempio da seguire per i tanti enti pubblici territoriali che, loro malgrado, sono finiti invischiati nelle operazioni in strumenti derivati, spesso mettendo a rischio la loro stessa stabilità economico-finanziaria.

Da quanto consta, si tratta della prima pronuncia cautelare con la quale un Tribunale italiano ha disposto la sospensione in via d’urgenza (e cioè ben prima della definizione del giudizio di merito) degli effetti di operazioni in derivati coinvolgenti enti pubblici(1). [Continua a leggere →]

Nell’ordinanza cautelare adottata il 21 ottobre 2011 (Giudice monocratico dott. Cofano, pubblicata su www.dirittobancario.it), il Tribunale Civile di Orvieto ha ravvisato il pericolo grave e irreparabile per le finanze del Comune di Orvieto in una situazione in cui lo stesso ente umbro risultava esposto verso la banca B.N.L. a causa di differenziali negativi collegati ad un prodotto swap che, per il triennio 2011-2013, stante il verosimile andamento dei tassi, avrebbe costretto il Comune a sborsare circa 1 milione e mezzo di euro.

L’ente è risultato essere vincolato da ben sette contratti di interest rate swap stipulati tra il 2003 ed l 2006 ed il cui sviluppo nel breve periodo avrebbe prodotto un’esposizione debitoria così pesante da far temere agli amministratori comunali di non poter più disporre finanche delle somme minime sufficienti ad assicurare il perseguimento delle funzioni pubblicistiche connaturate ad un ente territoriale.

Dopo avere introdotto il giudizio civile di merito – per mezzo degli Avv.ti Luca Zamagni e Matteo Acciari – il Comune di Orvieto ha dunque proposto un ricorso cautelare in corso di causa invocando le ragioni d’urgenza connesse all’art. 700 c.p.c. ed instando per una immediata sospensione degli effetti dei contratti I.R.S.

Il Tribunale umbro ha incentrato la propria indagine sulla verifica circa la sussistenza del  periculum in mora, da ravvisarsi generalmente nella oggettiva impossibilità, per la parte ricorrente, di salvaguardare i propri diritti assunti lesi mediante un successivo risarcimento per equivalente pecuniario.

Più in particolare, a detta del Giudice adìto, non potendo ricavarsi l’irreparabilità del danno patrimoniale dalla sola natura pubblica del soggetto contraente, in fattispecie come quella in discorso “risulta necessario verificare se un’eventuale sospensione concessa con il presente provvedimento consentirebbe effettivamente al Comune di disporre altrimenti delle somme temporaneamente non versate alla Banca Nazionale del Lavoro e quindi di perseguire i fini pubblici il conseguimento dei quali sarebbe invece ostacolato qualora, in attesa di ottenere la restituzione di tutto quanto dovrebbe essere pagato nel prossimo futuro, l’ente territoriale fosse impossibilitato ad affrontare gli esborsi necessari per il conseguimento di tali fini”.

Essendo il Comune riuscito a provare la sua grave situazione debitoria, che lo vedeva pesantemente esposto nei confronti di diversi suoi fornitori per prestazioni collegate a servizi essenziali per la collettività, il Tribunale ha ritenuto di individuare l’elemento del pregiudizio grave ed irreparabile nella constatazione dell’impossibilità per lo stesso Comune di poter far fronte contemporaneamente “alle une ed alle altre obbligazioni finanziarie”.

Secondo il Giudice di Orvieto, una norma vigente in materia di finanza degli enti locali (l’art. 195 del d. lgs. n. 267 del 2000) può legittimamente consentire ad una pubblica amministrazione che si trovi nelle medesime condizioni del Comune di Orvieto di accantonare le somme non più versate alla banca e di destinarle a far fronte ai pagamenti di altri soggetti creditori in relazione a prestazioni fornite al Comune, corrispondenti a servizi da quest’ultimo erogati alla cittadinanza.

Il precedente creato dal Tribunale umbro è decisamente importante: resta solo da attendere di capire quanti altri enti pubblici italiani ne seguiranno eventualmente la scia.

 

NOTE

(1) Viceversa, non mancavano già diverse pronunce cautelari che avevano disposto analoga sospensione d’urgenza in rapporti tra imprese private e banche (ex multis, cfr. Trib. Lecce, 9 maggio 2011, commentata in DERIVATI.INFO in questa pagina).

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Link al provvedimento

 

17 Febbraio 2012   Nessun commento

L’ADUSBEF INCORAGGIA L’INCHIESTA DELLA PROCURA DI TRANI SU BANKITALIA E DERIVATI “TOSSICI”

Comunicato dell’associazione ADUSBEF

Ottima notizia l’inchiesta penale della Procura di Trani, che ha incriminato l’inerte e contiguo ufficio di Vigilanza di Bankitalia a cominciare dalla vice direttore generale Anna Maria Tarantola ed altri 7 ispettori della Banca d’Italia, tra cui Simonetta Iannotti e il capo Stefano Mieli, coinvolti nell’indagine che ha portato al sequestro dei prodotti finanziari “tossici” messi sul mercato dal Banco di Napoli, oggi Intesa San Paolo, e dal Monte dei Paschi di Siena, per aver appioppato derivati avariati a decine di imprese, tipo “interest rate swap”, tra i più moderni strumenti fraudolenti artefici della crisi sistemica e di fallimenti a catena di piccole e medie imprese e del dissesto finanziario di enti locali. [Continua a leggere →]

Ma è inutile,indecente e controproducente, che le colluse autorità possano giocare allo scaricabarile sulla pelle degli utenti truffati, di fronte alla sacrosanta azione penale del Pm Savasta della Procura della Repubblica di Trani e del Procuratore Capo dr. Carlo Maria Capristo, ai quali va il plauso di Adusbef e di milioni di consumatori.
Se la Banca d’Italia ha svolto gli approfondimenti del caso – come avrebbe affermato l’istituto centrale – fornendone puntuale informativa all’autorità giudiziaria e alla Consob, sull’operatività dei derivati di tipo ‘swap’ oggetto dell’indagine della Procura di Trani commercializzati dalle banche alle imprese, con l’auspicio che la Magistratura accerterà la piena insussistenza degli addebiti ipotizzati a carico di propri esponenti e dipendenti, perché l’azione della vigilanza, sarebbe improntata all’esclusivo perseguimento delle finalità istituzionali, nel pieno rispetto della legge, oltre alla signora Tarantola la Procura di Trani per non sbagliare, deve allargare il suo orizzonte alla Consob, che invece di vigilare sui derivati avariati appioppati a piene mani dalle banche, sanzionava rappresentanti di consumatori come Adusbef,che denunciava proprio alla magistratura quei comportamenti criminali, configurando un abuso di potere.
Nel filone dell’inchiesta che vede 61 funzionari indagati a vario titolo per truffa aggravata ed estorsione, con gli ispettori di Bankitalia, i quali nonostante sapessero dei rischi che derivavano dalla commercializzazione dei derivati del tipo “swaps”, avrebbero favorito la loro vendita anche tramite ispezioni relative agli anni 2006 e 2008,con le quali la stessa signora Tarantola, nella sua qualità di direttore centrale per la vigilanza creditizia e finanziaria, scriveva: “Questo istituto non ha ravvisato, per i profili di competenza, aspetti di rilievo sanzionatorio amministrativo”, senza impedire l’aggravarsi dei danni che tale attività ha arrecato alla clientela, occorre aggiungere l’ex presidente della Consob Cardia, il facente funzione Vittorio Conti e tutti quegli altri dirigenti Consob assunti senza alcun concorso di pubblica evidenza poi promessi a posti di responsabilità, che non hanno mai disturbato l’azione fraudolenta delle banche.
Adusbef nella richiesta di costituzione di parte civile contro la signora Anna Maria Tarantola e Bankitalia, il cui mandato è già stato affidato all’avv. Antonio Tanza del Foro di Lecce, vicepresidente Adusbef e massimo esperto nel contenzioso bancario, chiederà l’incriminazione della Consob, le cui responsabilità sul commercio dei derivati sono lampanti.

Fonte: http://www.adusbef.it/consultazione.asp?Id=8464&T=P

3 Febbraio 2012   Nessun commento

NOTE CRITICHE A CASSAZIONE, SEZIONE II PENALE N. 47421-2011

commento a cura degli avvocati Luca Zamagni e Matteo Acciari (Axiis Network Legale)

Con sentenza n. 47421 del 21 dicembre 2011, la seconda Sezione penale della Corte di Cassazione ha dichiarato l’inammissibilità dei ricorsi presentati dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Messina, nonché dai Comuni di Messina e Taormina, con i quali era stata impugnata un’ordinanza emessa dal Tribunale del Riesame di Messina in data 1 giugno 2011.

L’ordinanza impugnata disponeva il dissequestro di alcune somme sottoposte a sequestro preventivo, siccome qualificate dalla Procura della Repubblica (e dal GIP presso il Tribunale di Messina, che nel proprio decreto aveva accolto le prospettazioni del PM) quale provento dell’uso asseritamente fraudolento di contratti di interest rate swap, stipulati dai suddetti Enti territoriali con una Banca. [Continua a leggere →]

In particolare, sempre secondo la prospettazione di GIP e Procura della Repubblica, non condivisa dal Tribunale del Riesame e dalla stessa Suprema Corte, il ricorso a contratti finanziari derivati, finalizzati alla ristrutturazione dell’indebitamento degli Enti, avrebbe generato consistenti danni economici connessi al carattere ab origine squilibrato dei contratti (e delle rimodulazioni dei medesimi), squilibrio non (adeguatamente) compensato dalla correlativa corresponsione di up front, con conseguente generazione di “costi occulti” a svantaggio dei contraenti pubblici e correlativo profitto illecito a vantaggio della Banca.
La sentenza n. 47421/2011 della Corte di Cassazione, che come anzidetto ha dichiarato l’inammissibilità dei ricorsi promossi avanti ad essa per i casi di Messina e Taormina, appare chiaramente rivolta ad esaminare la questione degli swaps degli Enti locali al solo fine di acclarare se nella fattispecie sottoposta alle sue cure fosse dato rinvenire la presenza di quei requisiti che la norma processuale penale richiede sussistano per consentire il sequestro penale dei proventi del delitto che i ricorrenti lamentano essersi consumato ad opera della banca. E’ dunque anzitutto evidente come le considerazioni lateralmente svolte dalla Suprema Corte, su questioni finanziarie o di diritto finanziario, non possano né debbano frettolosamente assumersi quale fonte cristallizzata del pensiero della Cassazione in tema di swaps (ammesso che al riguardo ve ne sia già uno e che esso sia univoco), almeno laddove l’interpretazione resa risponda, come in questo caso, a criteri ermeneutici propri di una specifica sedes materiae. Purtuttavia, ed anzi probabilmente proprio in ragione del fatto che la Cassazione nella anzidetta sentenza n. 47421 era occupata da accertamenti “altri” rispetto a quelli che altrove si pongono a torto o a ragione al centro del contenzioso tra Enti locali ed intermediari in materia di derivati finanziari, della decisione del 21 dicembre 2011 appare utile approfondire alcune affermazioni che, già analizzate criticamente da autorevoli studiosi della materia economica e finanziaria e da operatori professionali del settore finanziario [1], risultano rese dai Giudici di legittimità senza un approfondito vaglio, e ciononostante già si rinvengono ripetute in taluni provvedimenti giudiziari successivamente resi [2]. * Muovendo dalla citata prospettiva, e tralasciando quindi di ingaggiare le questioni d’ordine prettamente penalistico poste al centro della decisione resa dalla Suprema Corte, ciò che anzitutto lascia perplessi nella sentenza n. 47421/2011 è l’omessa contestualizzazione della vicenda in riferimento alla normativa settoriale (o meglio, alla ratio ispiratrice della medesima) dedicata ai derivati degli Enti territoriali. Si afferma nella pronuncia in commento che “per poter stabilire se quel dato [ci si riferisce al valore del mark to market del contratto derivato sottoscritto dall’Ente locale, NdR] rappresenti o meno un vantaggio o un danno per l’Ente contraente, occorre procedere ad una disamina a posteriori, allorché, cioè, il contratto abbia raggiunto la sua normale scadenza […]”.
Si afferma, altresì che “[…] l’ordinanza impugnata ha correttamente posto in luce la circostanza che, alla stregua delle risultanze processuali acquisite […] fosse emersa la sostanziale convenienza della operazione finanziaria realizzata dai Comuni interessati, dovendosi fare riferimento agli effetti che i contratti avevano prodotto sulle finanze comunali in termini di cassa e non di competenza”.
Si ritiene che affermazioni di tale tenore non possano reputarsi compatibili con le prescrizioni dell’art. 41 Legge n. 448/2001, vera e propria Grundnorm in materia di operatività in derivati degli Enti locali.
E difatti l’art. 41 della Legge n. 448/2001, nel rendere esplicito che il ricorso alle operazioni finanziarie da esso elencate (fra le quali si è soliti ricondurre, secondo l’unanime opinione della dottrina e della giurisprudenza, anche quelle in strumenti derivati) è possibile “al fine di contenere il costo dell’indebitamento” senza parimenti disporre, neanche in via mediata, che la valutazione di un tale contenimento (ovvero della convenienza economica dell’operazione intrapresa dall’Ente pubblico) sia effettuata al termine del contratto, dovendosi anzi dire che la previsione di tale valutazione quale attività prodromica alla valida assunzione del vincolo contrattuale depone per un apprezzamento della convenienza economica condotto a priori e non a posteriori, giacché in tale ultima eventualità l’obiettivo della norma, al pari del suo valore precettivo, ne risulterebbe evidentemente frustrato.
In altre parole, quando il Legislatore ebbe a redigere il testo dell’art. 41 della Legge n. 448/2001 (così come la successiva normativa regolamentare e di dettaglio), aveva ben presente che l’elemento fondamentale per valutare la convenienza dell’operatività in derivati è il costo di quella operatività[3], da intendersi non certo come risultato da valutare a contratto eseguito e concluso, bensì come onere connesso alla sottoscrizione del contratto al momento della sua stipulazione, elemento che incide anche sulla valutazione del derivato come avente funzione speculativa più che di copertura.
Tale assunto è ben presente alla giurisprudenza più abituata a trattare la materia finanziaria, con la quale il ragionamento espresso dalla sentenza n. 47421 resa dalla seconda Sezione penale della Corte di Cassazione appare porsi in netto contrasto. A titolo esemplificativo, la Sezione Regionale di Controllo per la Lombardia della Corte dei Conti, nella Deliberazione n. 596/2007[4] ha assunto un approccio interpretativo ben distante da quello dei giudici di Piazza Cavour, affermando come: “in relazione al requisito della “riduzione del costo finale del debito” occorre ancora precisare che l’effetto del derivato (sia lo swap su tassi di cambio, che è obbligatorio, che lo swap da tasso di interesse da variabile a fisso, o viceversa, o l’acquisto di un opzione nei limiti nei quali è consentita) potrebbe risolversi per l’ente in un onere complessivo finale più elevato rispetto a quello che si sarebbe avuto se non si fosse conclusa l’operazione finanziaria. Conseguentemente, al riguardo, è fondamentale stabilire se il giudizio di merito sull’operazione debba essere dato con una valutazione ex post, vale a dire che utilizzi quale parametro l’effettivo esito dell’operazione, ovvero con una valutazione ex ante, che assuma quale punto di riferimento non l’effettivo esito dell’operazione, ma quello prevedibile al momento della conclusione, in relazione alle circostanze conosciute o conoscibili da chi ha stipulato il contratto. A seconda della prospettiva scelta l’acquisto di derivati di “copertura” può rientrare o meno nel concetto di “riduzione del costo finale del debito”, intesa come riduzione meramente eventuale in relazione a possibili, ma incerte, variazioni dei mercati finanziari, che, per l’appunto, il derivato può proporsi di neutralizzare, stabilizzando il debito. Ferma restando ogni perplessità in ordine alla natura del contratto che, considerata la durata, è caratterizzato dalla elevata aleatorietà dell’evoluzione dei tassi d’interesse, è evidente che se il legislatore ammette che possa essere concluso dagli enti territoriali, la valutazione sulla convenienza economica non può che svolgersi ex ante, vale a dire in relazione al momento della conclusione del contratto”. L’orientamento espresso dalla magistratura contabile, che depone chiaramente a favore di una valutazione ex ante della convenienza economica dei contratti derivati degli Enti locali, è stato altresì suggellato nelle parole che le Sezioni Riunite in sede di Controllo della medesima Corte dei Conti hanno reso il 18 febbraio del 2009[5] alla VI Commissione “Finanze e Tesoro” del Senato in occasione del ciclo di Audizioni effettuate nell’ambito della “Indagine conoscitiva sull’utilizzo e la diffusione degli strumenti di finanza derivata e delle cartolarizzazioni nelle pubbliche amministrazioni”. In tale sede, difatti, le Sezioni Riunite hanno affermato come: “uno degli aspetti più delicati in ordine alle attività di controllo nella materia in questione riguarda l’accertamento della convenienza economica che deve essere valutata in relazione alle conoscenze e cognizioni acquisite dalle parti al momento della conclusione del contratto”, e dunque a priori, e che: “al riguardo occorre rilevare che un’analisi completa degli aspetti finanziari non può prescindere dalla verifica delle curve forward dei tassi di interesse che sicuramente l’intermediario finanziario ha attentamente valutato prima di addivenire alla conclusione del contratto”.
E’ dunque chiaro alla magistratura contabile che la valutazione di convenienza rimessa alle parti dal dettame dell’art. 41 Legge n. 448/2001 sia attività prodromica alla stipulazione del contratto in derivati il quale, in difetto di un esito positivo della valutazione di convenienza condotto alla luce dei dati emergenti dalla documentazione sopra richiamata, non potrà essere affatto stipulato.
A tale conclusioni è giunta anche la magistratura civile nella nota sentenza n. 5118 resa dal Tribunale di Milano il 14 aprile 2011[6]. Nell’affrontare il tema della sussistenza della convenienza economica di uno swap negoziato da un Ente locale, il Tribunale meneghino ha infatti anch’esso concluso che: “sono nulli per difetto di causa in concreto i contratti swap sottoscritti da enti pubblici che alla data di sottoscrizione presentino mark to market negativo (c.d. swap non par) ove l’equilibrio sinallagmatico non sia ripristinato mediante erogazione di un premio corrispondente in sede di sottoscrizione del derivato”, ritenendo che: “il mtm negativo alla sottoscrizione dei contratti, tanto più se non esplicitato, attribuisce ai contratti swap una funzione speculativa in contrasto con la tipologia di contratti derivati rimessi alla possibile stipulazione da parte degli Enti Locali dall’art. 41 co. 1 L. 448/2001 e dall’art. 3 DM 389/2003”[7]. Ed ancora, l’isolamento in cui si inserisce la valutazione proposta dalla sentenza n. 47421 resa dalla seconda Sezione penale di Cassazione sul tema della valutazione di convenienza economica risulta confermato leggendo il ragionamento espresso dal Consiglio di Stato, nella sentenza n. 5032, resa dalla Sezione V il 7 settembre 2011 nell’ambito del contenzioso che coinvolge la Provincia di Pisa[8].
Anche i giudici di Palazzo Spada hanno infatti statuito chiaramente che: “in base a tale substrato normativo [ci si riferisce in particolare all’art. 41 Legge n. 448/2001 ed all’art. 3 Decreto MEF n. 389/2003, NdR] non può negarsi che la convenienza economica della ristrutturazione del debito, come del resto già accennato in precedenza, costituisse effettivamente la “causa” della stessa procedura di gara indetta dall’amministrazione provinciale di Pisa, avendo quest’ultima l’obiettivo di ridurre la sua esposizione debitoria e verosimilmente poter disporre di una maggiore liquidità da utilizzare per la tutela degli altri interessi pubblici affidati alle sue cure: la complessiva operazione di ristrutturazione del debito, del resto, secondo la stessa ratio ispiratrice del citato articolo 41 della legge 28 dicembre 2001, n. 441, intendeva coniugare i vari interessi in gioco di contenimento della spesa pubblica, assicurando agli enti locali la possibilità di far fronte alla cura e alla tutela delle funzioni loro affidate, attraverso un’accorta politica di gestione economico-finanziaria anche del bilancio e delle relative poste passive. A ciò consegue che l’esistenza di “costi impliciti”, sia pur riscontrati dall’amministrazione provinciale solo dopo la conclusione del contratto, incideva effettivamente sulla convenienza economica dell’operazione di ristrutturazione del debito, diminuendone la sua stessa efficacia, a nulla rilevando la prospettazione, peraltro meramente formalistica, degli appellanti secondo cui gli strumenti finanziari derivati non sarebbero strumenti di debito e come tale non rientrerebbero nell’ambito di applicazione del ricordato articolo 41 della legge 28 dicembre 2001, n. 10: è sufficiente replicare al riguardo che i derivati costituivano lo strumento stesso attraverso cui si realizzava concretamente l’operazione di ristrutturazione del debito, così che essi (ed in particolare i loro “costi impliciti”, non facilmente riscontrabili dall’amministrazione e neppure dichiarati dalle banche) non possono non rientrare e non essere valutati ai fini della convenienza economica della operazione stessa e negli obiettivi con essa perseguiti”. Ma vi è di più. Vige attualmente nel nostro ordinamento un divieto temporaneo di stipulazione di nuove operazioni in derivati per gli Enti territoriali, introdotto dall’ art. 62 comma VI del Decreto Legge n. 112/2008, convertito in Legge n. 133/2008, normativa, come noto, sottoposta a verifica di costituzionalità da parte della Corte Costituzionale. Nella propria Sentenza n. 52 del 18 febbraio 2010[9] il Giudice delle Leggi, dopo aver ritenuto la legittimità del richiamato divieto normativo di stipulazione dei contratti derivati da parte degli Enti territoriali, la natura fortemente aleatoria degli strumenti di finanza derivata ed il carattere di oggettiva pericolosità per l’equilibrio della finanza locale di siffatte tipologie di operazioni, ha altresì stigmatizzato come consentire agli Enti locali il perdurante utilizzo degli strumenti derivati esponga la finanza ed i bilanci pubblici al rischio di assumere oneri impropri, in quanto: “la realtà ha ampiamente dimostrato che persino le operazioni di rinegoziazione dei contratti derivati, a seguito di ristrutturazione del debito, nel prevedere fin dall’inizio condizioni di sfavore degli enti, comportano l’assunzione di rischi aggiuntivi mediante lo spostamento nel tempo degli oneri derivanti da condizioni ancora più penalizzanti rispetto a quelle iniziali”. E’ evidente che, se la Corte Costituzionale si fosse ritenuta vincolata ad un esame della convenienza economica dei soli effetti “a scadenza” di uno swap, essa non avrebbe potuto rendere le affermazioni sopra riportate.
Appare dunque in modo lampante dalla breve rassegna che precede come un corretto apprezzamento della normativa di settore deponga a favore della tesi secondo cui il momento in cui devono valutarsi i contratti (e la loro convenienza economica) è quello della relativa accensione e non già quello della loro conclusione.
E’ d’altro canto nella prospettiva di una valutazione a priori che acquisisce significato il carattere par o non par del contratto medesimo e si comprende appieno la funzione dell’up front.
Nelle parole della Consob: “i contratti non par […] presentano al momento di stipula un valore di mercato negativo per una delle due controparti, poiché uno dei due flussi di pagamento non riflette il livello dei tassi di mercato. […] i termini finanziari della transazione vengono riequilibrati attraverso il pagamento di una somma di denaro […]; tale pagamento, che dovrebbe essere pari al valore di mercato negativo del contratto, prende il nome di up front”[10].
L’omessa (o la parziale) corresponsione, al momento della stipula o della rimodulazione del contratto, dell’up front al contraente svantaggiato da parte del contraente avvantaggiato, costituisce il costo implicito (altrimenti definibile anche come costo occulto o commissione implicita). Il costo implicito altro non è se non la rappresentazione “plastica” della deminutio patrimonii subita dal cliente, cui corrisponde un indebito (ed occulto) arricchimento del contraente bancario. Ossia, in altre parole, l’ingiusto profitto.
Al riguardo, proprio in tema di quantificazione del costo implicito nell’ambito dei contratti swap, ad oggi si confrontano tesi diverse, ancorché deve oramai convenirsi che le diversità di opinioni al riguardo attengano appunto al quantum del costo implicito, piuttosto che, come accadeva in passato, alla sua stessa esistenza[11]. Come visto, sono molteplici le considerazioni che suggeriscono la conclusione che l’orientamento espresso dalla seconda Sezione penale della Suprema Corte nella sentenza n. 47421 del 21 dicembre 2011, in tema di “convenienza economica” debba essere rimeditato, e a ciò deve aggiungersi che un’opera di rimeditazione non potrà che involgere la connessa questione di una corretta qualificazione giuridica del mark to market dei contratti derivati.
Si legge infatti nella pronuncia in commento che il “mark to market non esprime affatto un valore concreto e attuale, ma esclusivamente una proiezione finanziaria basata sul valore teorico di mercato in caso di risoluzione anticipata” (in argomento si è efficacemente parlato di “metafisica giurisprudenziale”[12]).
Il dato appare errato, esprimendo invece il mark to market il valore di mercato del derivato ad un dato momento, coincidente con quello in cui tale valore è rilevato. E tale valore (che può essere positivo o negativo per l’uno, come per l’altro contraente) è la risultante dell’attualizzazione dei flussi differenziali a scadenza al momento della rilevazione.
Non per questo, tuttavia, il mark to market è una posta, per così dire, “virtual- probabilistica” ed accessoria del contratto, come pare invece sostenere la sentenza della Cassazione. Sembra infatti che i giudici della Suprema Corte abbiano confuso la rilevazione di un valore storicamente dato, qual è il mark to market all’atto della stipula del contratto, con le previsioni sui futuri mark to market che il contratto potrà assumere che sono necessariamente caratterizzati da un margine di aleatorietà, siccome funzione dell’andamento delle variabili finanziarie.
Al contrario, all’atto della rilevazione (ed in primis, all’atto dell’accensione del derivato), il mark to market esprime il valore del contratto nel momento esatto di rilevazione e dunque, perdendosi ogni apprezzamento futuro del medesimo, il suo valore concreto (a cui il contratto potrà essere stipulato, trasferito o ceduto).
E’ così, in un’ottica di contrasto alla visione di “virtualità” del concetto che è stata espressa dalla Cassazione penale, giova in questa sede[13] rammentare come a favore di una contraria “concretezza” del mark to market depongano:
(i) i principi contabili internazionali (ed in particolare allo IAS 39), in base ai quali i derivati sono classificati quali “attività / passività finanziaria al fair value rilevato a conto economico”, in quanto tali appostati a bilancio dagli intermediari finanziari. In tal senso, come è stato giustamente osservato “è in gioco, anche, che lo squilibrio originario del derivato a vantaggio della banca costituisca un vantaggio patrimoniale astrattamente rilevante a fini di appostazione a conto economico e quindi costituisca un profitto economico”[14];
(ii) il preciso obbligo che gli stessi Enti locali hanno di rappresentare nei propri bilanci l’operatività in derivati, a mezzo dell’allegazione di apposita nota indicante la valutazione degli oneri e dei rischi finanziari correlati al contratto derivato (cfr. art. 1 comma 383 Legge n. 244/2007, ripreso dall’art. 62 comma 8 D.L. n. 112/2008, n. 112, convertito in Legge n. 133/2008, nel testo risultante a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 3 Legge n. 203/2008)[15], con le note conseguenze anche in ordine al rispetto, o meno, da parte degli Enti locali, dei vincoli del cd. “Patto di Stabilità”; (iii) le periodiche rilevazioni del mark to market dei contratti derivati che influenzano altresì l’assegnazione dei giudizi sul merito di credito degli Enti locali (ossia il loro rating), giudizi attribuiti agli Enti anche dalle stesse banche controparti in ossequio ai principi espressi da Basilea; (iv) il fatto che sin dal gennaio del 2005 il mark to market dei derivati è comunicato dalle banche alla Centrale dei Rischi della Banca d’Italia, e dunque spiega effetto sullo stesso accesso al credito bancario.
* In conclusione, la lettura della sentenza della Cassazione in una chiave che, usando una locuzione ancora recentemente in voga potremmo definire “giusfinanziaria”[16], rende manifesto più di un dubbio sulla non corretta valutazione di concetti finanziari e della normativa settoriale da parte della Suprema Corte. L’auspicio è che possano esservi per i giudici di legittimità occasioni prossime venture per tornare in maniera più meditata sui suddetti concetti e sulle richiamate normative, adottando le dovute correzioni di rotta.

 


 

NOTE

[1] S. GALIMBERTI, “Analisi del recente orientamento giurisprudenziale sul mark-to-market alla luce della teoria e prassi matematico-finanziaria”, in www.dirittobancario.it

[2] Ci si riferisce all’Ordinanza 07-08/02/2012 del Tribunale del Riesame di Terni, con la quale il Tribunale annulla il Decreto di sequestro preventivo emesso dal GIP di Orvieto in data 21/01/2012, commentata da D. MAFFEIS, “Swap: il Tribunale annulla il decreto di sequestro preventivo a carico dell’intermediario”, in www.dirittobancario.it

[3] In argomento vedasi le condivisibili valutazioni di CHIAIA P. – SQUASSO S., “Ma i derivati della P.A. erano davvero convenienti?” in “Milano Finanza” dell’11/12/2010, pag. 23.

[4] In www.corteconti.it

[5] In www.corteconti.it

[7] Appare utile ricordare come nel provvedimento il Tribunale di Milano abbia anche chiarito che: “La dimensione particolarmente alta del mark to market iniziale (specie se anche superiore al limite posto dall’art. 3 lett. F del DM 389/2003) esclude la possibilità di attribuire a tale squilibrio la funzione causale di corrispettivo dell’intermediario finanziario. L’applicazione da parte dell’intermediario di commissioni non esplicitate è in contrasto con l’art. 61 del Reg. Consob 11522/98”.

[8] In www.giustizia-amministrativa.it

[9] In www.ilcaso.it

[10] Si veda l’Audizione del Direttore generale della Consob Dott. Massimo Tezzon avanti alla VI Commissione “Finanze” della Camera dei Deputati, “Problematiche relative al collocamento di strumenti finanziari derivati” del 30/10/2007, pag. 2 (in termini del tutto conformi vedasi altresì l’Audizione del Direttore generale della Consob Dott. Antonio Rosati avanti alla VI Commissione “Finanze e tesoro” del Senato della Repubblica, “Indagine conoscitiva sulla diffusione degli strumenti di finanza derivata e delle cartolarizzazioni nelle Pubbliche Amministrazioni” del 18/03/2009). Peraltro, in appendice al testo dell’Audizione del 2009, da ultimo citata, sono riportate le “Istruzioni metodologiche per la qualificazione dei rischi e la determinazione dei costi impliciti nei contratti di indebitamento con sottostanti derivati”, nelle quali l’Autorità di Vigilanza (che, come noto, in materia di intermediazione finanziaria è non raramente Legislatore di settore, su delega del Legislatore ordinario) illustra “un approccio metodologico di tipo risk based [ossia basato sulle probabilità o meno di verificazione, all’epoca della stipulazione del contratto, di dati “scenari”, NdR] per la qualificazione dei rischi e la determinazione dei costi impliciti nei contratti di indebitamento con sottostanti derivati”. La metodologia risk based è di fatto stata adottata dallo stesso “Schema di Regolamento MEF di attuazione dell’articolo 62 del D.L. n° 112/2008”, ossia dalla bozza dell’emanando nuovo regolamento, licenziata già da tempo del Ministero dell’Economia, e che dovrebbe disciplinare la futura operatività in derivati degli Enti territoriali.

[11] Secondo una prima corrente di pensiero, che valorizza il disposto dell’Allegato 3 al Regolamento Consob n. 11522/1998, laddove si precisa che “alla stipula del contratto, il valore di uno swap è sempre nullo”, all’atto di accensione dello swap i contraenti devono poter fare affidamento sul valore nullo del mark to market: dopotutto, le parti stanno effettuando una “scommessa” sul futuro valore del contratto e la “vittoria” o la “sconfitta” di un giocatore sull’altro è funzione della correttezza o meno delle diverse assunzioni previsionali sui futuri scenari elaborate da ciascun contraente. Discende da tale impostazione che nell’ipotesi in cui uno dei contraenti, all’atto della sottoscrizione dello swap, entri, per così dire, nella “scommessa” in condizioni di vantaggio, debba integralmente compensare lo “svantaggio” patito dell’altro corrispondendogli una somma (l’up front, appunto) di importo pari all’esatto controvalore del “vantaggio” inizialmente acquisito. Secondo altra impostazione – non antitetica, ma certamente diversa rispetto a quella appena sopra esposta – già all’atto dell’accensione dello swap il contraente bancario, che “confeziona” il derivato over the counter, deve poter fare affidamento su taluni margini di copertura dei costi e dei rischi sostenuti (hedging) e su una giusta remunerazione del proprio operato (mark up). Detti importi, in tale prospettiva non solo leciti, ma anche dovuti, andrebbero così “defalcati” dall’importo dell’eventuale up front da riconoscere alla controparte contrattuale. Secondo tale opzione interpretativa, l’attenzione muove dal valore precettivo dell’Allegato 3 del previgente Regolamento Intermediari Consob per ingaggiare il tema dell’equità contrattuale (ossia: remunerazione sì, purché equa) e, in ossequio alle norme di settore (l’art. 21 TUF e le norme di cui agli art. 32 comma V e 61 del previgente Regolamento Intermediari in primis, nonché i rigorosi criteri di cui alla Comunicazione Consob n. DIN/9019104 del 02/03/2009) della trasparenza (la remunerazione è legittima se e solo se il contraente non bancario è stato preventivamente informato dell’esistenza e dell’entità del mark up) .

[12] Cfr. il summenzionato contributo di A. PALETTA, “Il Mark-to-Market degli strumenti finanziari derivati: tra metafisica giurisprudenziale e concretezza delle regole contabili”, cit.

[13] Per una più approfondita disamina vedasi ancora A. PALETTA, “Il Mark-to-Market degli strumenti finanziari derivati: tra metafisica giurisprudenziale e concretezza delle regole contabili”, cit.

[14] D. MAFFEIS, “Swap: il Tribunale annulla il decreto di sequestro preventivo a carico dell’intermediario”, cit.


[15]
Sul punto vedasi la già citata Corte dei Conti, Sezioni Riunite in sede di Controllo, Audizione alla VI Commissione “Finanze e Tesoro” del Senato della Repubblica del 18/02/2009.

[16] Così già E. LA LOGGIA, “Sul regime gius-finanziario della Regione siciliana”, in Giur. tic. 1948, I, 5, recentemente, A. D. SCANO, “I covenants nei contratti di finanziamento all’impresa: garanzie o strumenti atipici di conservazione della garanzia patrimoniale?”, in “Le Operazioni di finanziamento alle imprese”, a cura di I.DE MURO, Giappichelli Editore, Torino, 2010, pag. 85.

11 Dicembre 2011   Nessun commento

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